Se gli emirati arabi si comprano un pezzo di Alitalia, o Tronchetti Provera vende ai cinesi la maggioranza della holding che controlla la Pirelli, nasce un caso. Figuriamoci, si diceva, se la Mondadori di Marina Berlusconi, l’Erede, conquista la divisione libri della Rizzoli-Corriere della Sera diventando così il più grande editore di libri che l’Italietta delle belle lettere abbia mai avuto… E invece no, tutto sommato le polemiche, che pure non sono mancate, si segnalano per sobrietà e moderazione. Nemmeno il fantasma dell’ex Caimano, che aleggia sui laghetti di Segrate, è riuscito a scaldare i cuori. Perché?
Intanto, sbaglieremmo di grosso se la buttassimo in politica. L’acquisizione di Rcs libri da parte della Mondadori risponde innanzitutto a esigenze economiche e finanziarie, e in più fa comodo a entrambi: spendendo relativamente poco - 127,5 milioni per qualcosa che forse ne vale 180-200 - la Mondadori porta a casa un grappolo di marchi preziosi con i quali migliorare l’efficienza del suo settore più redditizio, i libri; Rizzoli, viceversa, cancella la voce più negativa del suo bilancio e mette in cassa denaro utile ad abbattere un debito ingente (526 milioni) e ad evitare un aumento di capitale che gli azionisti rifuggono come la peste.
E poi bisogna diventare sempre più grandi, no? Per fare economia di scala, esistere sul mercato on line e allontanare il rischio di essere facilmente comprati e venduti: strada seguita dai francesi (Hachette ha conquistato Vivendi diventando così numero uno dell’editoria); dagli spagnoli (con le joint venture del Grupo Planeta); dagli inglesi (la britannica Penguin Books passa all’americana Random House che poi la vende alla tedesca Bertelsmann). E ora dagli italiani. La nuova Mondadori controllerà il 37 per cento del mercato italiano con un fatturato vicino ai 500 milioni e una scuderia ricca e varia: oltre ai già suoi Einaudi, Electa, Piemme, Sperling & Kupfer, potrà contare adesso su Rizzoli, Bompiani, Marsilio, Sansoni, Fabbri, Sonzogno… Ma non sulla Adelphi, salvata da una clausola contrattuale suggerita a suo tempo da Guido Rossi, che in caso di cambio di proprietà concede a Roberto Calasso un diritto di prelazione.
È il mercato, bellezza. Giusto, vero, ma il libero mercato si fonda anche sulla concorrenza, specie qui dove non ci sono editori grandi ma medi - Feltrinelli, Sellerio, Laterza, gruppo Mauri-Spagnol (Longanesi, Chiarelettere, Guanda, Garzanti, Bollati Boringhieri) - e poi una costellazione di piccoli che dovranno sudare per resistere a Mondadori & Rizzoli. Insomma, “Mondazzoli”, non significherà forse pensiero unico, né monopolio, e forse nemmeno posizione dominante, ma onnipotenza sì. E dunque in guardia, come in passato quando si è trattato di giornali e tv.
Eppure, poco si urla e per niente si sbraita. Anzi, prevale la cautela aspettando la pronuncia dell’Antitrust: più che bocciare l’acquisizione (difficile assai), potrebbe chiedere per esempio di allentarne il peso rinunciando a qualcuna delle prede. Non bisogna essere poi un genio per capire che la forza di una casa editrice sono i suoi marchi e i suoi autori, e che costringerli a uniformarsi sarebbe suicida. Del resto, la Mondadori di Berlusconi controlla da vent’anni l’Einaudi, ma non le ha impedito di essere se stessa (salvo qualche caso di autocensura). Un impero federalista funziona meglio. E poi, osserva Calasso, nulla è scontato, ci sono piccoli editori indipendenti che non valgono granché, e grandi gruppi che producono qualità.
In ogni caso, niente sarà più come prima. Cambia il mercato. Finisce l’eterna sfida tra i due editori che inventarono gli Oscar e la Bur. E tramonta un’epoca. Per decenni, infatti, l’editoria ha ricalcato nei cataloghi, negli autori e in un vivace dibattito a distanza i tre grandi filoni della cultura politica italiana: cattolico, marxista, laico. Ma anche per i libri, come in politica, quella stagione si è chiusa per sempre e molti steccati sono stati abbattuti. Anche per questo, non meraviglino dunque né Mondazzoli né il rassegnato silenzio che l’accompagna. Basta, finito, oggi c’è il marketing, la rete, la globalizzazione. La Fiat si chiama FCA, Fiat Chrysler Automobiles, e la Ferrari, nata a Maranello, è quotata a Wall Street. E magari anche Mondazzoli un giorno salperà per New York. Amen.
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