In Europa per decenni abbiamo visto solo la pace. Altrove, una generazione è cresciuta tra le bombe. Ora queste realtà diverse sono entrate in contatto

Come sono vicini quei due mondi lontani

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Roberto Bolaño chiuse “Amuleto” con questa frase: «E anche se il canto che ascoltavo parlava della guerra, delle imprese eroiche di un’intera generazione di giovani latinoamericani sacrificati, io capii che al di là di tutto parlava del coraggio [...]. E quel canto è il nostro amuleto». Quando colpiscono la vita con atti di forza, quando la storia ci presenta il conto e non capiamo cosa stiamo pagando, penso che abbiamo bisogno di canti e ancor di più di amuleti. E ne abbiamo bisogno perché stiamo vivendo un cortocircuito. Venerdì scorso per i fatti di Parigi, qualche settimana fa per l’aereo russo precipitato nel Sinai e per l’attacco kamikaze a Beirut, ad aprile per il massacro nel campus di Garissa e per quello a gennaio alla redazione di “Charlie Hebdo”, reperivamo informazioni in tempo reale sui social. Venerdì scorso sapeva più l’adolescente con un account Twitter che il giornalista che provava a contattare colleghi a Parigi per poter dare informazioni attendibili.

L’essere connessi e quindi idealmente vicinissimi, rende ancora più stridenti le diversità che vivono identiche generazioni di paesi separati da poche ore di volo. E fa capire come l’umanità, oggi più che mai, si divida innanzitutto tra chi riconosce e chi non riconosce colpi di proiettile. L’umanità che sa riconoscere colpi di pistola, colpi di mitra, colpi di artiglieria, la differenza tra una granata e una bombola del gas che esplode, generazioni e generazioni di giovani in Libia, Egitto, Israele, Libano, Turchia, Palestina, Kosovo nati e cresciuti con questa conoscenza che i loro coetanei europei, vicinissimi, non hanno. Quando parlo di Napoli come di territorio in guerra, è esattamente a questo che mi riferisco. A Napoli un colpo di pistola lo riconoscono anche i bambini; invece al Bataclan, venerdì scorso, ci sono testimoni che riferiscono di aver sentito colpi di arma da fuoco ma di averli creduti effetti speciali. Di averli creduti rumori innocui.

Ecco il cortocircuito: siamo una generazione che sta vivendo guerre su molti fronti, eppure siamo nati per essere incapaci di imbracciare un fucile, di saperlo caricare, incapaci di riconoscere un bossolo o di mettere la sicura a un’arma. Siamo la speranza partorita dalla Seconda guerra mondiale, una speranza non solo abortita, ma anche in larga parte incapace di leggere il presente che del passato è la logica conseguenza.

Questa superficialità ci ha portati a non essere nemmeno capaci di leggere l’inutilità e persino la pericolosità di certe decisioni in politica estera, come ad esempio l’invasione decisa da Bush e Blair dell’Iraq a guerra già vinta, contro Saddam Hussein già sconfitto, con l’unico effetto di creare proselitismo e un sentimento antioccidentale ancora più diffuso. Siamo in balia di interessi che a volte non comprendiamo, e a volte siamo proprio noi i destinatari di certe azioni. Noi che abbiamo bisogno che ci si dica che non si sta a braccia conserte, inattivi, mentre aspettiamo che la prossima bomba ci cada in testa o che la prossima raffica di mitra pieghi le nostre già deboli volontà. Del resto a Garissa, come in Francia, si è voluto colpire esattamente ciò per cui sono iniziate le primavere arabe: ovvero l’affermazione della sacrosanta volontà di poter scegliere come vivere.

Gli attentati di Parigi non hanno preso di mira ambasciate o parlamenti, non sono più questi i loro nemici, ma i luoghi della nostra felicità quotidiana. Hanno colpito prima un aereo di turisti di ritorno da una vacanza, poi a Beirut hanno ammazzato 47 persone che si trovavano per strada. E in Francia un teatro, poi un ristorante, lo stadio.

Capiscono ciò per cui vale la pena vivere: la libertà di scegliere dove andare in vacanza, a che ora uscire per fare la spesa, che musica ascoltare, che persona amare, dove andare a mangiare, come poter passare insieme il tempo. Ecco cosa hanno voluto attaccare.

Ecco perchè nessuna vacanza, nessun concerto e nessuna uscita possono essere date per scontate: perché ci sono persone, a poca distanza da noi, con cui ci capita di dialogare sui social, che questa libertà non ce l’hanno da molto tempo o non l’hanno mai avuta. Persone che decidono di lasciare i loro paesi e chiedono asilo a noi proprio perché dove sono nati non possono vivere, figuriamoci se possono scegliere. Un concerto, una cena, una partita di calcio sono la costituzione della libertà, una libertà che non appartiene solo a noi. Sono il segno della possibilità di scegliere. Ricordiamolo ogni volta che siamo lì, semplicemente e superficialmente a vivere.

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