IN UN’INTERVISTA pubblicata lunedì scorso da “Repubblica” Jane Goodal, etologa studiosa di scimmie e in particolare degli scimpanzé, ha tracciato un quadro di quegli animali con i quali, stando alla teoria dell’evoluzione, la nostra specie sarebbe parente, avendo un progenitore comune. Secondo la Goodal gli scimpanzé hanno dei tratti che in alcuni aspetti sono assai somiglianti ai nostri.
Quell’etologa li ha molto frequentati e continua a studiarli, ma fin d’ora ne ha già verificato molti aspetti: per esempio la tenerezza, il senso della protezione, la difesa della propria famiglia ed anche il desiderio di far conoscenza anche con persone di altre specie che dedichino a loro una parte del proprio tempo. Hanno anche il senso dell’ira e della vendetta se si sentono maltrattati o infastiditi da esperimenti che l’estraneo tenta di fare su di loro. Talvolta quegli esperimenti soddisfano il loro senso di conoscenza ma talaltra si sentono trattati come cavie e questo non lo accettano e reagiscono duramente. La Goodal racconta che uno scimpanzé, stanco d’essere studiato in modi per lui fastidiosi, reagì rompendole la falange di un dito della mano. Ma - dice l’etologa - gli scimpanzé non hanno mai ucciso nessuno né della propria specie né di altre, a meno che non siano aggrediti in modo tale da fare altrettanto a propria difesa. In questi casi si manifesta in pieno l’istinto di sopravvivenza che è fondamentale in tutte le nature viventi e perfino nei vegetali che con le radici cercano la terra fertile e con le fronte cercano la luce del sole curvando in modo adatto i rami e perfino il tronco se si tratta di alberi e in altri modi per vegetali diversi; il girasole per esempio volta la propria corolla seguendo il movimento della terra intorno al sole.
Dunque lo scimpanzé ci somiglia abbastanza da vicino ma, stando alla Goodal, non sarà mai come noi. Almeno in questo caso l’evoluzione è esclusa e la scimmia resta scimmia. Forse perché il suo cervello non è in grado di pensare concetti astratti? Forse perché la sua forma scimmiesca non è in grado di trasformarsi nell’ominide, che è qualcosa tra la scimmia e l’uomo? O perché lo scimpanzé non è veramente un bipede come noi siamo e la sua pelliccia non ha nulla a che vedere con la peluria nostra?
C’è un punto però leggendo un passo di quell’intervista che mi ha fatto molto riflettere: il comportamento delle femmine.
SONO DI DUE TIPI le femmine scimpanzé, attentamente studiate dalla nostra etologa: la maggior parte di esse fanno famiglia col maschio e con i figli: partoriscono, nutrono i neonati, li proteggono dalle intemperie, li educano nella crescita; ma un’altra parte di femmine si comportano in modo del tutto diverso: vivono errabonde e sole, sono fortemente stimolate dai istinti sessuali, perciò cercano il maschio e sanno come offrirsi a lui nei modi più stimolanti, ma poi l’abbandonano e proseguono con altri la loro ricerca del piacere.
Debbo dire che è molto strana questa lussuria senza tenerezza né fedeltà. La Goodal racconta questa situazione ma non spiega che cosa accadrebbe se qualcuna di quelle femmine restasse incinta. Eliminerebbe i suoi neonati? Oppure si comporterebbe con loro convertendosi allo stato materno? Oppure ancora sono sterili, prive addirittura di ovaie o incapaci d’esser fecondate? Ecco un punto che meriterebbe di essere approfondito.
Ma la questione centrale di questa impossibile evoluzione dallo scimpanzé all’ominide e quindi all’uomo è un’altra è l’Io, la capacità della mente di vedere il se stesso da fuori, vedersi muovere, sentirsi parlare, pensare, confrontarsi con gli altri suoi simili o con diversi da lui avendo coscienza di sé e memoria del proprio passato, immaginare il proprio futuro e tentare di realizzarlo. Insomma essere animato da una sorta di autocoscienza in tutte le sue forme, compresa la domanda che ogni persona umana continuamente si ripropone: chi sono, da dove vengo, dove vado, domanda che reca con sé l’immagine dell’invecchiamento, della morte e di un eventuale Creatore.
QUESTO SALTO dal cervello alla mente è spiegato dalla teoria evolutiva come il vero punto che consente di passare dall’una ad altra specie. La natura modifica il cervello, la cassa cranica che lo contiene, il numero delle cellule e la loro specializzazione e tutto il resto che ne deriva a cominciare dalla trasformazione delle fasce nervose, dei tendini, della struttura ossea, dei muscoli e della contrapposizione del pollice delle mani alle altre quattro dita, mentre questa possibilità non è prevista per le dita dei piedi che non sono affatto prensili.
Tutte queste modifiche creano una personalità capace di parlare di se stessa e dei diversi da sé.
La Goodal giudica impossibile che la scimmia, o almeno lo scimpanzé che è quello che più ci somiglia, possa varcare la soglia dell’Io e cioè che il suo cervello possa modificarsi mettendo in moto l’intero processo evolutivo. Ma si pone allora il problema di come emergono nel corso del tempo le varie specie. Con un atto creativo che crea una specie alla volta? Un Creatore indefesso cui non basta la settimana biblica, ma continua a creare attimo dopo attimo una forma diversa da quella precedente e da quella successiva, una Divinità senza scopo alcuno, un motore che agisce senza scopo. Una trascendenza immensa che infonde vita ad esseri ogni volta diversi.
Questo modo di concepire la Divinità esalta la trascendenza fino a limiti estremi, ma introduce anche una spersonalizzazione di quella Divinità. È piuttosto un Essere supremo che un Dio padre.
Queste domande sono sempre aperte da milioni di anni. Lo scimpanzé non se le pone, ma l’uomo sì ed è proprio questa la differenza che li divide.