In nome della realpolitik, Sua Santità non farà gesti imbarazzanti per il regime dell’Avana. E sarà più severo coi potenti nell’altra tappa in Usa

Diavolo e acqua santa a parti rovesciate

Stati Uniti e Cuba, ovvero il diavolo e l’acqua santa. Il viaggio che papa Francesco ha in agenda dal 19 al 27 settembre lo porterà ai due poli opposti della sua visione geopolitica: nel tempio dell’«economia che uccide» e subito prima nell’avamposto dei popoli in via di riscatto. Perché nell’isola dei Caraibi e nella “Alianza Bolivariana” già saldata tra Cuba e i regimi populisti di Nicaragua, Venezuela, Ecuador e Bolivia l’argentino Jorge Mario Bergoglio vede un anticipo della “Patria Grande” da lui tanto sognata, la primavera di una integrazione del continente latinoamericano in chiave cattolica e anticapitalista. Due di questi Paesi, Ecuador e Bolivia, li ha già visitati, nel terzo, Cuba, è in arrivo. E per i loro governanti ha sempre avuto un trattamento di grande riguardo, anche quando hanno dato le prove peggiori. Contro la deriva totalitaria nel Venezuela di Hugo Chávez e Nicolás Maduro non ha mai speso una sola parola, né ha mai risposto agli appelli di una popolazione ridotta alla fame. Quanto a Cuba, anche qui di Francesco impressionano i silenzi.

Certo, una volta atterrato all’Avana, Francesco parlerà. Ma a scorrere il programma della visita, colpisce quanto sia scarno. In altri Paesi il papa non ha mai mancato di entrare in un carcere o di incontrare profughi e senzatetto. Negli Stati Uniti si sa già dove e quando lo farà. Ma a Cuba no. A Lampedusa gettò fiori in mare e gridò “Vergogna!”, ma è improbabile che lo faccia dal Malecón dell’Avana, davanti al braccio di mare che ha inghiottito migliaia di cubani in fuga verso le coste della Florida. È difficile che in una prigione incontri qualcuno delle centinaia di detenuti politici.

Le Damas de Blanco, le madri e spose degli oppositori in carcere, che ogni domenica vanno a messa biancovestite sfidando le angherie e le percosse della polizia, difficilmente troveranno posto in prima fila alle messe del papa. Quanto agli oppositori in libertà vigilata e intermittente, l’unica speranza è che il papa ne saluti qualcuno al di fuori del programma ufficiale, come il regime ha già benignamente concesso al segretario di Stato americano John Kerry, il giorno dell’inaugurazione della rinata ambasciata degli Stati Uniti a Cuba.

C'è molta realpolitik nel silenzio fin qui tenuto da papa Francesco sulla privazione di libertà del popolo cubano. Il segretario di Stato vaticano Pietro Parolin e il suo sostituto Angelo Becciu sono cresciuti alla scuola del cardinale Agostino Casaroli, grande diplomatico in tempi di impero sovietico, e sono stati nunzi l’uno in Venezuela e l’altro a Cuba. Ne conoscono i dossier e Francesco sembra attenersi alle loro istruzioni. Ciò che vi aggiunge di suo è l’approccio personale, confidenziale, quasi da confessore, con i despoti che incontra. È riuscito a commuovere un notorio cuore di pietra come Raúl Castro, inducendolo a enunciare, dopo un colloquio a due in Vaticano, propositi di ritorno alla pratica della religione cattolica. Con Fidel c’è da aspettarsi un bis. La scommessa è che nei tre giorni di presenza nell’isola Francesco inventi qualche altro fuoriprogramma, capace di dare un minimo di sostanza al grido «Libertad!» già levatosi invano dalle folle cubane durante le visite dei due precedenti papi.

Negli Stati Uniti sarà tutt’altra musica. Bergoglio non ha mai amato quella che è la massima potenza dell’Occidente e del mondo. E anche nei rapporti personali non fa mistero di preferire un Vladimir Putin a un Barack Obama. Ma la stessa freddezza il papa la ostenta anche col corpo dei vescovi di questo Paese, in buona parte wojtyliani e ratzingeriani non pentiti. Perché anche i vescovi sono critici dell’amministrazione Obama, ma per ragioni diverse da quelle di Francesco. Per i vescovi sono sotto attacco l’identità e la libertà dell’uomo maschio e femmina uscito dalle mani di Dio, mentre per il papa la suprema minaccia è lo strapotere dell’economia liberista. Negli annunciati discorsi al Congresso, all’Onu e ai vescovi si vedrà fino a che punto Francesco spingerà la sua reprimenda.

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