I Paesi si scambiano meno beni. I motivi? Calo ciclico, ripresa economica lenta e spinta verso i consumi interni

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La recente decisione della Cina di permettere una leggera svalutazione dello yuan ha fatto serpeggiare nei mercati azionari di tutto il mondo momenti di panico. Dietro a questa reazione estrema si può leggere la preoccupazione per il rallentamento della crescita cinese e per l’effetto che avrà sulle esportazioni verso la Cina dal resto del mondo. I timori riguardanti il commercio mondiale non si limitano tuttavia ai soli interscambi con la Cina.

È un dato di fatto che il ritmo di crescita del commercio mondiale, inteso come la somma delle esportazioni e delle importazioni di beni e servizi, che è di norma il doppio di quello della crescita del Pil mondiale, negli ultimi quattro anni lo abbia appena uguagliato. Considerando questi dati storicamente, il commercio mondiale dovrebbe espandersi di un tasso dell’1,5-2 per cento più alto dell’attuale crescita.

La maggior parte dei Paesi, sia avanzati sia in via di sviluppo, dovendo far fronte al rallentamento della crescita interna e a esportazioni stagnanti, ha permesso alla propria valuta di deprezzarsi rispetto al dollaro Usa. Fino a poco tempo fa, la Cina rappresentava una delle poche eccezioni rispetto a questo trend e negli ultimi anni la sua valuta si è apprezzata consistentemente rispetto al dollaro. Non stupisce quindi che molti abbiano letto in questo repentino cambiamento di rotta non solo un segnale di seri problemi nell’economia cinese, ma anche il primo round di una destabilizzazione della concorrenza valutaria.

Questi preoccupanti sviluppi sollevano un importante quesito: il rallentamento del commercio richiede da parte delle autorità interventi specifici oltre lo sforzo continuo per rilanciare le rispettive economie nazionali? La risposta è no, ma per arrivare a questa conclusione occorre capire innanzitutto che cosa abbia causato il grande rallentamento del commercio mondiale.

Tra gli economisti c’è consenso sul forte ruolo dei fattori ciclici nel calo del commercio. Nello specifico, la crisi finanziaria globale ha colpito in maniera sproporzionata le regioni e i settori nei quali gli scambi internazionali svolgono un ruolo importante. L’Unione europea, che sta tentando di riprendersi da una crisi cronica del debito sovrano, rappresenta circa 1/5 della produzione mondiale ma ben 1/3 del commercio mondiale.

Inoltre, adeguandosi a una domanda debole, nei Paesi avanzati il settore produttivo ha rimandato il rinnovo degli impianti e dei macchinari, mentre un consumatore nervoso ha posposto l’acquisto di immobili, mobilio e lavatrici. La produzione di questi beni di investimento richiede un intensa circolazione di materie prime e componenti tra i Paesi, in quanto spesso essa si trova proprio al centro delle cosiddette catene del valore globali. Si stima, per esempio, che la quota delle importazioni contenuta nei beni di investimento sia doppia rispetto a quella dell’import nei beni di consumo, e che questa sia la ragione per cui il crollo degli investimenti abbia avuto un impatto così amplificato sul commercio. Con l’aggiunta della recessione europea, al calo degli investimenti potrebbe facilmente essere imputata più di metà della minore crescita del commercio mondiale rispetto al Pil.

Se si considera corretta questa interpretazione della frenata del commercio come fenomeno ciclico, gli interscambi dovrebbero riprendere a crescere a un ritmo vicino a quello abitualmente sostenuto non appena l’economia globale si reimmetterà nella carreggiata della crescita. Non c’è pertanto niente di nuovo, di addizionale o di specifico che le varie autorità debbano porre in essere, oltre al mandato di fare ripartire la crescita economica, che di per sé costituisce già un obiettivo ambizioso. Ciò che deve essere evitato, invece, è che governi e autorità interpretino erroneamente la caduta delle esportazioni come conseguenza di manipolazioni valutarie o di protezionismo da parte dei loro partner commerciali perché ciò potrebbe facilmente dare il via a una corsa al ribasso. Questo punto introduce l’altra causa della contrazione del commercio.

Per buona parte degli anni Novanta e dei primi anni Duemila, con la caduta del Muro di Berlino e in un contesto di crescita stabile, il ritmo di crescita degli interscambi mondiali accelerò notevolmente rispetto agli standard storici. Mentre l’Unione Sovietica si dissolveva e i suoi satelliti nell’Est europeo diventavano economie di mercato assieme al Vietnam, e anche l’India si adoperava per una sostanziale liberalizzazione del commercio, fu più che altro la Cina ad integrarsi nei mercati mondiali.

In questo processo, gli schemi delle produzioni trovarono nuove frontiere del vantaggio competitivo lungo cui riorganizzarsi, mentre emergevano importanti opportunità di investimento. Negli anni Novanta, il commercio mondiale crebbe più rapidamente rispetto al Pil di almeno un tre per cento, una differenza annua più alta rispetto al periodo 1950-1990. Ora che la transizione dalle economie pianificate è quasi del tutto compiuta, è improbabile che nel prossimo futuro si ripeta un tale balzo straordinario del commercio mondiale. Le autorità non possono intervenire su questo dato. Possono solo riaggiustarvi le aspettative per le esportazioni.

Un altro argomento avanzato per spiegare l’andamento del commercio è il sempre minore bisogno di operare all’interno delle catene del valore globali. Secondo questo ragionamento, la Cina starebbe riorientando la sua economia verso il consumo, i servizi e i mercati interni a discapito dell’export e dell’industria manifatturiera, oltre a imparare a produrre nel Paese i componenti sofisticati che non dovrà più importare. Al tempo stesso, le imprese americane sarebbero sempre più consapevoli del costo che implica coordinare delle catene produttive globali e starebbe riportando nel Nordamerica molte produzioni per trarre vantaggio dal basso costo locale dell’energia e dalla sempre maggiore automazione.

Anche se tutto ciò è in parte vero, le prove empiriche a sostegno sono contraddittorie e si prestano a interpretazioni differenti. Per esempio, l’export in calo e il maggiore affidamento dell’economia cinese sulla domanda sono imputabili, almeno in parte, alla conclusione della transizione e agli effetti della domanda ciclica accennati prima. Quanto agli Usa, nonostante la molto applaudita rinascita manifatturiera, i posti di lavoro sono stati creati prevalentemente nel settore dei servizi, mentre l’occupazione manifatturiera resta sotto i livelli pre-crisi. È possibile, inoltre, che il dollaro forte abbia avuto come effetto, se non altro, un rafforzamento di questi trend.

Tuttavia, anche accettando come corretto l’argomento che le imprese si stiano ritirando dalle catene del valore globali, cosa di cui dubito, un tale trend implicherebbe soltanto che le aziende hanno trovato modi più efficienti di produrre e di vendere. I decisori politici dovrebbero essere consapevoli del trend ma non interferire nel suo svolgersi.

L’ultima possibile spiegazione del più lento ritmo del commercio mondiale è un riemergere del protezionismo. Dal mio punto di vista, però, non ci sono prove convincenti che il protezionismo abbia avuto un ruolo importante nel rallentamento. Vari esperti hanno verificato gli indicatori di un possibile nuovo protezionismo, e tra questi i dati e le statistiche del segretariato dell’Organizzazione del commercio mondiale, della Banca mondiale e dell’ong Global Trade Alert. Non hanno trovato prove di un deterioramento generalizzato.

Varie sono le ragioni per convincersi che il commercio oggi sia più libero: secondo uno studio di economisti dell’Ocse e del Wto, negli ultimi vent’anni le tariffe dei membri del Wto si sono ridotte del 15 per cento; i costi del trasporto hanno continuato a scendere dal 7 al 5 per cento del valore dello scambio. In più, l’80 per cento dell’export in partenza dai Paesi in via di sviluppo entra nei Paesi avanzati senza dazi, rispetto al 55 per cento di vent’anni fa. La diffusione del commercio elettronico ha fatto nascere una miriade di “micro-multinazionali”, piccole aziende che esportano (e comprano) dovunque nel mondo, un trend destinato a rafforzarsi.

Infine, nel determinare quanto la politica debba reagire al grande rallentamento dell’interscambio mondiale, è importante smentire una diffusa ma errata convinzione: l’idea che l’export in aumento svolga un ruolo essenziale nello stimolare la domanda aggregata. Visto da un dato Paese e a un dato momento ciò è vero, ma poiché il mondo non esporta verso Marte, nel mondo aggregato le esportazioni devono essere uguali alle importazioni e pertanto l’effetto del commercio mondiale sulla domanda aggregata globale è esattamente zero.

Il beneficio vitale che offre il commercio mondiale non è quello di stimolare la domanda aggregata ma quello di espandere l’offerta globale permettendo la divisione del lavoro e allocando le risorse in maniera più efficiente. Questo è il motivo per il quale i politici devono, anzitutto, continuare ad adoperarsi contro il protezionismo, oltre a consolidare i collegamenti del proprio Paese con il mondo tramite migliori trasporti e comunicazioni. Per quanto riguarda invece la spinta per un’accelerazione del commercio nei prossimi 12-24 mesi, niente è più importante delle misure tese a intensificare il ritmo della ripresa dalla crisi finanziaria nei singoli Paesi.

traduzione di Guiomar Parada