Dopo il voto Usa, l’Europa ha una chance. Ma solo se alternativa alla “pace calda” Usa-Russia

Dice che abbasserà le tasse e caccerà milioni di clandestini (proprio come fece Barack Obama senza sbandierarlo ai quattro venti). Ma dice anche di essere favorevole ai matrimoni gay (proprio come fece Barack Obama, per la verità dopo un primo periodo tiepido). Eppure le parole di Donald Trump incutono paura, timori, panico nel mondo, mentre quelle del presidente uscente degli Stati Uniti trasmettevano l’idea di un progetto politico avanzato. Com’è possibile? Il fatto è che nell’era delle “democrature”, dove gli uomini contano più dei partiti e delle idee, dove si dice quello che l’incazzato di turno vuole sentirsi dire, dove ci si schiera per pure ragioni personali ma si addita gli altri come nemici della democrazia, dove la rabbia si incanala tra frustrazioni e delusione e si tramuta in voto, pensare non serve più, non rende politicamente, non diverte l’elettore.


L’idea è morta. Non conta nulla se non è incarnata nel capo. In una nuova dimensione fideistica della politica, dove agli apostoli si sono sostituiti i portaborse nella vita reale e i troll sui social. L’idea deve avere la voce del leader, il suo sguardo, il suo odore. E ne assume, di conseguenza, il colore politico. Chi afferma qualcosa vale più di ciò che dice e questo è il vero pericolo che corriamo in Europa. Qui dove di idee ce ne sono poche, mentre di corpi che le incarnano ce ne sono troppi.

Più ancora del trumpismo in sé, dunque, spaventa la reazione del Vecchio continente. Prendiamo il caso italiano. Matteo Renzi, incastrato nelle maglie di un referendum che si è trasformato in un uomo nero che ogni notte minaccia di mettere fine alla sua stagione politica, prima ancora che sia cominciata, almeno nelle urne, decide all’improvviso di fare come fanno quelli che oggi prendono i voti del popolo arrabbiato. Al grido #bastaunsì ammaina la bandiera europea dalle sale del Palazzo, fa la voce grossa con l’Unione, litiga con tale Juncker, affitta per la serata il costume da uomo anti-sistema così da piacere un po’ alle masse, sperando di ribaltare in zona Cesarini il risultato del voto del 4 dicembre sulla riforma del Senato. Una tecnica “trumpiana”, un’auto truccata, che rischia di portarlo a destinazione nel breve periodo ma di restare in panne quando c’è da fare il viaggio lungo. Questo non soltanto perché la vecchia regola dei duelli insegna a non usare mai l’arma del nemico, perché farlo significa aiutare il tuo antagonista nell’illusione di somigliare a lui. Ma soprattutto perché puntare il dito contro l’Europa adesso vuol dire rifugiarsi nella propria “infanzia democratica”. Nelle poche cose che ancora si riconoscono come tana, come rifugio, l’ultima grande certezza che ci venne donata dai tempi della modernità ormai consunti: lo stato nazionale.

Ma oggi è proprio questo il pericolo: cedere all’illusione di “proteggere” i voti (e quindi i governi di coalizione) dal populismo, smarcandosi dalla globalizzazione, chiudendosi in se stessi, esponendosi senza protezione alcuna alla tempesta, stavolta devastante, su quel che resta del nostro sistema economico post-bellico.

Eppure le elezioni americane indicherebbero la strada opposta. Mai come adesso, alla vigilia dell’insediamento di Trump, c’è bisogno di una fuga da quel sistema di valori desueto per fondare finalmente, e davvero, l’Europa come alternativa alla “pace calda” che ha sostituito la “guerra fredda” fra gli ex Usa (non incarnano oggi il ruolo di guida dell’Occidente) e la ex Urss (in fase di riorganizzazione, una perestrojka a rovescio verso una chiusura culturale che non si vedeva dal 1989). Nel caos populista, insomma, sembrerebbe presentarsi per l’Europa la grande occasione, il match della vita, il riscatto dopo due decenni di serie B. Potremmo dire il match della sopravvivenza. Quello fra democrazie e democrature. Un match che non si può combattere senza visione unitaria. Non si vince restando ognuno sotto la propria, un po’ sgualcita, bandiera.

Twitter @Tommasocerno

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