Il prossimo governo deve durare poco. Non è più tempo di esecutivi senza legittimazione elettorale. E bisogna tornare a far esprimere i cittadini
E ora, citando uno storico titolo, verrebbe da dire “Fate presto”. Allora - era il 1980 - il Mattino di Napoli denunciava i ritardi nei soccorsi ai terremotati dell’Irpinia; oggi, fortunatamente, lo scossone non ha il sapore della tragedia, ma è profondo; non parte dalle viscere della terra, ma dall’insoddisfazione dei cittadini e scuote le fondamenta delle istituzioni: aperte le urne e certificata la più clamorosa e partecipata delle bocciature politiche, sarebbe suicida fare finta di niente o inseguire soluzioni già dolorosamente sperimentate.
Non è più tempo, per intenderci, di governi tecnici catapultati da chissà dove a Palazzo Chigi senza passare per le urne, di simboli viventi dell’austerità. C’è stato un momento - in piena crisi, tra le macerie del berlusconismo e con un parlamento in cerca di maggioranza - in cui non c’erano alternative: la priorità era dar vita a un governo che incontrasse il favore di Bruxelles più che dei cittadini, capace cioè di convincere i partner europei dell’impegno a varare le necessarie misure finanziarie. Per questo nell’autunno del 2011 Giorgio Napolitano favorì la nascita del governo Monti che evitò all’Italia la deriva greca e l’arrivo della troika, ma che è costato moltissimo in termini di sacrifici, di gelata dell’economia e di consenso a chi lo aveva sostenuto (soprattutto al Pd): nell’immaginario collettivo il salvatore diventò presto nemico della patria. Oggi è indispensabile pensare a un esecutivo nel quale siano finalmente i cittadini a riconoscersi: c’è altro modo di evitare che paure e delusioni prendano la strada della demagogia?
Comunque, tecnico, istituzionale o di larghe intese, che duri poco. E poi si vada a votare. È possibile infatti che, preso atto delle dimissioni di Matteo Renzi ed esaurite le consultazioni, Sergio Mattarella si esprima per un governo di scopo (di larga maggioranza o no) che abbia per missione, dopo la legge di stabilità e i finanziamenti per il dopo terremoto, una nuova regola elettorale che nasca dalle macerie dell’Italicum (sul quale pende il giudizio della Corte costituzionale), del Porcellum e del Consultellum. Bene, purché non diventi l’ennesima scusa per traccheggiare.
Quale che sia infatti la lettura che vi convince di più, il voto del 5 dicembre ha mostrato una frattura profonda tra il Paese e chi lo rappresenta: infilando una scheda nell’urna, quasi venti milioni di italiani hanno smentito il lavoro di quasi il 60 per cento dei deputati e senatori che in loro nome avevano approvato la riforma Renzi-Boschi. Ma non si governa a lungo con un Parlamento sconfessato. Stavolta, poi, gli italiani sono andati a votare in massa, ignorando gli apocalittici dell’astensione e i teorici della fine della politica: quando serve a decidere, il voto si esercita e come. Averlo affermato dopo tre governi (Monti, Letta, Renzi) nati senza elezioni e con un Parlamento figlio di liste bloccate, pesa ancora di più.
Perdere tempo, dunque, farebbe male alla democrazia, e anche all’economia. I mercati, che avevano già scontato una vittoria del no (spread su, titoli delle banche giù da giorni), ora spingono perché non ci siano scossoni. Sanno bene che un governicchio può mettere a rischio Borsa, debito pubblico, rapporti con l’Europa, possibilità di crescita, destino delle banche: investitori e fondi sovrani chiamati al capezzale del Monte dei Paschi di Siena fanno sapere che ora, prima di decidere, aspettano di sapere chi sarà il loro interlocutore. Anche per questo più nette si fanno le voci di un salvataggio pubblico del Monte, ma per trattarne le condizioni con Bruxelles occorre un governo vero. E pensate che possa essere un premier dimezzato a rappresentare l’Italia nel 2017, sessant’anni dai Trattati di Roma, semestre di presidenza italiana del consiglio europeo e G7 a Roma?
Basta con i tecnici, no a governi che si perdano in chiacchiere, e no pure a pasticci che riportino le lancette indietro di settant’anni. Si chiede a gran voce una legge elettorale che consenta ai cittadini di esprimersi e al vincitore di governare con una maggioranza solida, senza alcun rimpianto per quella stagione in cui più che vincere contava che non vincessero gli altri. Non vorremmo più assistere a spettacoli simili a quello appena visto di dirigenti e militanti che, in un émpito di schizofrenia, brindano alla caduta del loro governo solo perché questa coincide con la sconfitta dell’odiato avversario di partito. Ci piacerebbero altri slanci, senza vendette o prove di forza. Nel rispetto di 33 milioni di italiani corsi a votare in una domenica di dicembre.
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