Sempre più lontane dai popoli, le classi dirigenti del vecchio continente non sanno trovare la rotta tra disuguaglianze, antipolitica e globalizzazione
Popolo e èlite, mai così distanti. Nell’Europa in cerca d’identità il solco scavato tra governati e governanti non ha precedenti dagli anni della fine della Seconda guerra mondiale. Un contagio politico senza confini, dalla Francia all’Italia, dalla Spagna alla Grecia, dall’Est ex comunista fino alla Germania sempre più al centro di una mappa geografica slabbrata. I partiti storici della ricostruzione post-bellica, i cattolici popolari e i socialisti democratici, si stanno rivelando culturalmente disarmati nel fronteggiare una complessità di processi sociali impressionante: la recessione perdurante, l’impoverimento dei ceti medi, l’immigrazione disperata, le tensioni etniche, la paura del terrorismo dentro casa, l’espansione del fanatismo islamico. Una concentrazione di fattori critici che di fatto chiude un’epoca durata settant’anni durante i quali le sorti magnifiche e progressive del Vecchio Continente ci hanno assicurato sviluppo, benessere, welfare e cooperazione; almeno per noi nati al di qua della cortina di ferro.
La generazione dei baby boomer - la mia generazione - è cresciuta con la convinzione che democrazia e pace fossero valori acquisiti per sempre in Europa, ancor più con il consolidarsi delle istituzioni comunitarie e l’introduzione della valuta sovranazionale. Amara illusione. La casa comune si sta sgretolando sotto il peso della leggerezza delle risposte fornite ai drammi di questi mesi, di questi anni sia dai singoli Stati che dall’insieme dell’Unione europea. «La ribellione contro le élite è in pieno svolgimento. La questione fondamentale è se (e come) le élite occidentali possano essere avvicinate di più ai cittadini», ha scritto sul “Financial Times” Martin Wolf, voce ascoltata della comunità finanziaria internazionale. Lo stesso Wolf ha ricordato i dati Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) secondo i quali tra il 1975 e il 2012 il 47 per cento circa della crescita totale dei redditi, al lordo delle imposte, «è andato a beneficio dell’1 per cento dei più ricchi». Il populismo si alimenta di questa vasta area di ingiustizia sociale. La sintesi manichea è interpretata con efficacia da Marine Le Pen: da un lato il popolo vessato, dall’altro le élite privilegiate.
In uno scenario europeo di incertezze e difficoltà «il vento dell’antipolitica soffia sempre più forte. Le masse per secoli sottomesse al potere delle élite, poi faticosamente integrate attraverso i partiti, oggi - scrive il politologo Mauro Calise nel suo “La democrazia del leader” - si ribellano a un sistema da cui si sentono sempre meno rappresentate e protette. In bilico tra le antiche identità nazionali e le paure delle sfide globali. Chiedono al leader di turno molto più di quanto potrà fare».
E se il capo carismatico non può, ecco entrare in scena la “fata democratica”, secondo la definizione di un altro studioso, Raffaele Simone, nel suo “Come la democrazia fallisce”. Una fata alla quale si può chiedere tutto anche a costo di sfiancarla. Così quando si ritorna alla realtà si scopre che la democrazia nella nostra vecchia Europa non è per sempre, ma è esposta a rischi, se non a vere catastrofi. Zygmunt Bauman, nell’intervista al nostro Alessandro Gilioli, esprime preoccupazione per possibili risposte autoritarie. Salvare l’Europa dunque per salvare le nostre fragili istituzioni democratiche. Ma come?
È il cuore del problema, ma nessuno dei leader nazionali sembra avere la forza di intraprendere un’iniziativa politica capace di riavvicinare governanti e governati. Il nostro Matteo Renzi ha ipotizzato primarie su scala continentale per selezionare il prossimo presidente della Commissione europea, carica oggi ricoperta dal lussemburghese Jean-Claude Juncker. Proposta caduta nel vuoto. Dell’istituzione di un unico ministro del Tesoro Ue si sono fatti promotori invece il presidente della Bundesbank e il governatore della Banca di Francia. Hanno così raccolto un’intuizione di Eugenio Scalfari sostenitore di questa nuova figura sovranazionale. In vista di futuri Stati federali d’Europa.
A Roma martedì 9 febbraio si sono riuniti i ministri degli Esteri dei sei paesi fondatori (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo). C’è poco tempo da perdere. Occorrono politiche fiscali comuni (al tema dell’evasione, non solo come male italiano, dedichiamo la copertina di questo numero); un progetto per il lavoro; grandi infrastrutture; difesa dei confini e al tempo stesso accoglienza dei migranti nel rispetto delle regole. Vasto programma. Ma solo dando risposte adeguate ai problemi del nostro tempo le élite europee si confermeranno classe dirigente legittimata dal consenso. In alternativa ci sono oligarchie autoritarie o populismi sfrenati.
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