Il Pil cresce poco, tagliare le spese è difficile. ?Per ridurre il debito non resta che vendere aziende (grandi e piccole) e immobili in mano allo Stato
Nonostante il governo ostenti un certo ottimismo sulla situazione economica all’insegna del motto “finalmente siamo ripartiti”, in realtà le ragioni per un cauto pessimismo si stanno accavallando.
Prima di tutto la crescita, fermatasi nel 2015 allo 0,8% e per quest’anno prevista ben al di sotto dell’1,6% stimato dal governo (1,3% secondo la media degli organismi sondata dall’“Economist”). Poi l’inflazione, inchiodata allo 0,1% nel 2015 e probabilmente stabile anche nell’anno in corso. Un aumento dei prezzi così flebile fa sì che la crescita nominale del Pil non stia dietro al deficit e quindi il debito pubblico cresca in proporzione più velocemente del Pil. Insomma, se quest’ultimo aumenta di 0,9 % (0,8 +0,1) e il deficit è del 2,6% (come nel 2015) ovviamente il debito si appesantisce più velocemente del Pil e il rapporto tra i due, oggi all’incirca il 133%, è destinato a peggiorare. Il recente rapporto della Commissione Ue, peraltro, non vede rischi a breve (1 anno) per la sostenibilità del debito italiano ma, pur basandosi su stime economiche più ottimiste delle attuali, è preoccupato per il medio termine.
Se a ciò aggiungiamo che l’occupazione a tempo indeterminato è salita un po’ grazie agli sgravi contributivi introdotti dal Jobs Act, ma il tasso di occupazione complessivo (vale a dire, quante persone effettivamente lavorano) è rimasto più o meno dov’era, ecco che il quadro comincia a diventare più fosco.
Si dice che il governo, per uscire dalla trappola della crescita anemica, voglia tentare la carta di un sostanzioso taglio alle tasse sul reddito, anticipando al 2017 la riduzione delle aliquote Irpef prevista per il 2018. In effetti, anche il presidente della Bce Draghi ha ammonito che la politica monetaria ha i suoi limiti e che per riprendere un percorso virtuoso sono necessari abbassamenti delle imposte in parallelo a decurtazioni della spesa e riforme strutturali. Orbene, queste ultime sembrano un po’ in mezzo al guado giacché il disegno di legge sulla concorrenza è fermo in Parlamento, la Ue ci multerà per il nostro ostinato rifiuto a mettere in gara le concessioni balneari, la riforma della Pa è una scommessa piuttosto che una realtà e #labuonascuola finora è stata una buona operazione di assunzioni pubbliche.
Sul fronte spending review non c’è da farsi molte illusioni. Già il balletto delle cifre provenienti da Corte dei Conti, istituti di ricerca come Unimpresa e commissari alla spesa è deprimente: secondo l’ultimo Bollettino Economico di Banca d’Italia, poi, nel 2016, a legislazione invariata, il saldo della spesa pubblica dovrebbe portare a una sua diminuzione di ben 360 milioni, con lo strabiliante contributo di 41 milioni in meno di spesa corrente, lo 0,0025% del Pil. Wow!
Se si vuole procedere ad una sforbiciata ai tributi che abbia impatto sull’economia (25-30 miliardi) senza incorrere non solo nelle ire della Commissione Ue, ma soprattutto in quella dei mercati (ricordate? Nelle fasi di turbolenza finanziaria di qualche settimana fa, l’Italia ha subito visto salire lo spread) che si può fare, allora?
Ovviamente procedere a una più robusta potatura delle uscite pubbliche e ad un ambizioso piano di privatizzazioni che scalfisca il debito pubblico. Il Mef si è dichiarato felice di aver raggiunto l’anno scorso il traguardo di incassi per privatizzazioni pari allo 0,4% del Pil (6,5 miliardi di cui 1,3 da un rimborso di capitale di Enav e il rimborso dei Monti bond di Mps privatizzazioni per modo di dire). Si tratta di risultati che non possono assolutamente bastare. Lo Stato, tutt’oggi proprietario di beni pubblici per centinaia di miliardi, deve rassegnarsi a perdere velocemente il controllo di grandi e piccole imprese, procedere all’alienazione degli immobili senza incorrere nelle farse normative degli ultimi anni (messa in vendita, ma senza cambiare la destinazione), predisporre incentivi più stringenti della flebile legge Madia affinché gli enti locali si liberino delle loro partecipazioni.
La coperta è troppo corta: se per coprirci meglio riusciamo anche ad attrarre capitale di rischio e togliere il Leviatano da ciò che non è di sua competenza, tanto meglio. Altrimenti nemmeno il pessimismo sarà più cauto.