Un incontro con Hailé Selassié. Il Negus non aveva dimenticato quando i giornalisti italiani lo avevano fischiato per ordine di Mussolini

Il 30 giugno 1936 è una data infausta nella nostra storia patria e negli annali del giornalismo nazionale. Ricorre l’ottantesimo anniversario e quel giorno va ricordato. A Ginevra, davanti alla Società delle Nazioni, Hailé Selassié, il piccolo imperatore dai grandi occhi neri, sottile e resistente come il fil di ferro, denuncia l’Italia fascista che ha invaso l’Etiopia, il suo paese, usando armi chimiche contro i combattenti e la popolazione civile. L’ Italia democratica esiterà per decenni prima di accettare quest’ultima verità proclamata con coraggio e dignità dal sovrano in esilio. L’ammissione di avere impiegato armi chimiche (in particolare l’iprite) durante quella guerra di conquista fu faticosa, contrastata, perché offuscava la presuntuosa immagine degli “italiani brava gente”, che avevano tracciato strade e coltivato deserti. La tenacia di Angelo del Boca è stata decisiva nella conferma di quel crimine, come lo è stata in tanti altri capitoli della nostra storia coloniale, di cui è stato il pioniere.

In quei giorni del 1936, mentre l’imperatore di 44 anni, senza più trono, denuncia a Ginevra l’aggressione fascista, a Roma Vittorio Emanuele III gli scippa la corona. Benito Mussolini regala al re d’Italia l’impero d’Etiopia. E il regime, con quella conquista coloniale, suscita un consenso nazionale forse senza precedenti. Per alcuni la sconfitta di Adua, che ha umiliato l’Italia di Crispi alla fine del secolo precedente, è stata vendicata dall’Italia di Mussolini. Il popolo di emigranti è sensibile alla conquista del “posto al sole” come dice lo slogan fascista. L’emigrante, affamato di terra, è diventato padrone. L’entusiasmo per la promozione a grande potenza fa trascurare quel che la Storia annuncia ai più accorti: cioè la fine imminente dell’epoca coloniale. La conferenza di Berlino, mezzo secolo prima, ne ha segnato il momento più intenso. Le potenze europee si sono spartite in quell’occasione il continente africano. Quando l’Italia fascista approda in Abissinia è già troppo tardi. Per Vittorio Emanuele III la corona imperiale etiopica dura cinque anni. La sua perdita anticipa di poco quella della corona reale italiana.

Ma torniamo a Ginevra, nel Palazzo delle Nazioni dove il Negus Neghesti (il re dei re), discendente della regina di Saba, denuncia l’aggressione fascista. Il suo discorso è premonitore. Vi si intravedono le violenze, i crimini che domineranno il decennio appena iniziato. L’ondata coloniale aveva fino allora risparmiato l’Etiopia, primo paese africano a sconfiggere una nazione europea, l’Italia ad Adua. Ma questo non aveva impedito che Hailé Selassié, come principe reggente, visitasse più tardi Roma, in segno di pace. Lo stile di Mussolini è un altro: insegue l’imperatore in esilio fino a Ginevra e cerca di umiliarlo. Manda un folto gruppo di giornalisti con l’ordine di fischiarlo. E i cronisti del regime ubbidiscono. Accolgono il sovrano cantando “Giovinezza”, l’inno fascista. Il servizio d’ordine li espelle dalla sala e li trattiene per breve tempo nei posti di polizia. Uno di loro descrive il soggiorno nelle guardine svizzere con un tono da “mie prigioni”, che lo stesso Mussolini trova eccessivo. Un altro però viene espulso dal partito perché, non trovandosi nella sala delle conferenze al momento giusto, non ha cantato “Giovinezza”. Non è stata una giornata gloriosa per il giornalismo italiano.

Trent’anni dopo il discorso di Ginevra, insieme ad altri quattro giornalisti europei, sono ricevuto da Hailé Selassié nel palazzo imperiale di Addis Abeba. Non è la prima volta che lo incontro. Mi sembra più minuto e più asciutto. Ma si tiene dritto e il suo sguardo è vivo, passa sopra le nostre teste. Nella conversazione affronta un argomento, l’etica giornalistica, che non è di sua particolare competenza, come sovrano in cui si confondono il despota e il riformatore. Un insieme di autoritarismo e di dignità. Ma ne parla soltanto per ricordare il comportamento provocatorio, sguaiato, dei cronisti italiani a Ginevra nel 1936. Lo rievoca senza commentarlo.

Trovo le sue parole giuste, persino troppo misurate. Il giorno dopo sono invitato a tornare al Palazzo imperiale, da solo, senza i colleghi di altre nazionalità. Un funzionario mi precisa a nome dell’imperatore che i suoi giudizi sui giornalisti italiani non mi riguardavano. Né riguardavano i giornalisti italiani democratici. Insomma se mi ero offeso l’imperatore si scusava. La parola scusa non viene ovviamente pronunciata. Un imperatore non si scusa. Non ce n’era del resto un motivo. Nel 1974 non rimasi insensibile alla notizia della destituzione di Hailé Selassié (Potenza della Trinità). La cui morte sarebbe avvenuta per soffocamento, con un cuscino.

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