Chi comanda a Roma? Dipende dalle vendemmie, dalle annate. Nel 2011 comandava il capo dello Stato (Napolitano); nel 2014 il presidente del Consiglio (Renzi); nel 2017, a quanto pare, comanda la Consulta. L’11 gennaio, negando il referendum sui licenziamenti, ha allungato la vita della legislatura; il 24 gennaio, decidendo sull’Italicum, può stabilirne i funerali. Nel frattempo ogni sentenza genera un clima di suspense, s’iscrive in un giallo aperto a ogni finale; mentre la politica attende trattenendo il fiato, inerte, come paralizzata. Il vuoto d’iniziative sulla legge elettorale ne è la prova più eloquente.
Ma è normale quest’alone d’incertezza sulle pronunce giudiziarie? In qualche misura, sì: il diritto non è una scienza esatta, altrimenti non ammetterebbe appelli e contrappelli. Oltremisura, no: un conto è la discrezionalità degli organi politici, un conto è il capriccio degli organi giurisdizionali. Quando i tribunali si sostituiscono invece ai Parlamenti, quando ne insidiano il primato, si manifesta un pericolo che può ben essere letale per le democrazie: il governo dei giudici, «government by judiciary».
Quest’espressione risale all’alba del secolo passato, sull’una e sull’altra sponda dell’Atlantico. Venne coniata nel 1914 dal Chief justice della Corte suprema del North Carolina, per denunciare i rischi del controllo giudiziario sulla costituzionalità delle leggi («una perversione della Costituzione»); in Europa fu esportata da un libro francese del 1921. Da allora in poi s’aprì una storia di baruffe, di colpi incrociati. Memorabile il conflitto che oppose il presidente Roosevelt alla Corte suprema degli Stati Uniti, durante gli anni Trenta, quando quest’ultima respinse alcune tra le riforme più significative del New Deal.
Anche in Italia, però, non sono state rose e fiori. Non per nulla la Consulta rischiò d’essere abortita già in Assemblea costituente, per la veemente opposizione di Togliatti; ma la Dc difese con tenacia la creatura, salvo pentirsene alla prima occasione. Era il 1956, l’anno di “Lascia o raddoppia?”; la Corte costituzionale esordiva nel nostro ordinamento, sia pure con 8 anni di ritardo rispetto alla Costituzione; e calò subito la scure su alcune norme poliziesche ospitate nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Da qui l’ira di Tambroni, ministro democristiano dell’Interno; peraltro imitato perfino dal papa, Pio XII.
Nei decenni successivi la protesta si è trasformata non di rado in rissa, in insulto, in improperio. Per esempio da parte di Pannella: «Corte Beretta» (1981), «strumento del regime» (1985), «suprema cupola della mafiosità partitocratica» (2004). Da parte di Berlusconi, con il suo ritornello sulla «Corte comunista». Da governatori regionali come Formigoni (nel 1997 dipinse la Consulta come un «organo partigiano, ulivista, anzi della parte peggiore e più retriva dell’Ulivo»). O anche da ministri come Guido Carli, che nel 1990 mise alla berlina le sentenze costituzionali «di spesa», presentando il conto dinanzi all’opinione pubblica: 53 mila miliardi in un decennio, quasi un quarto dell’intero deficit dell’epoca. D’altronde due anni prima, nel 1988, un’accusa analoga era risuonata per bocca di chi l’aveva preceduto al ministero del Tesoro. Il suo nome? Giuliano Amato, che adesso siede proprio alla Consulta. La vita è una giostra, come no.
Ma su quella giostra i giudici costituzionali non si limitano a incassare calci e ceffoni dai politici; talvolta li restituiscono, aggiungendo qualche grammo di curaro. Come fece, per esempio, il presidente Granata, in una conferenza stampa del febbraio 1999: la Consulta aveva riscritto le norme sui pentiti, sollevando critiche e dissensi; lui reagì con parole di fuoco al fuoco sparato dal Palazzo. O come fece, con toni ancora più furenti, il giudice Romano Vaccarella. Nel maggio 2007 si dimise, puntando l’indice contro tre ministri (Chiti, Mastella, Pecoraro Scanio) e un sottosegretario (Naccarato). La loro colpa? Pressioni sull’inammissibilità del referendum elettorale, uno dei tanti su cui la Corte costituzionale si è trovata a giudicare in questi anni. Secondo Vaccarella, insomma, nell’occasione il controllato cercò di controllare il proprio controllore.
In Italia può succedere, ma può anche succedere il contrario. Ossia che l’arbitro diventi giocatore, che una sentenza prenda il posto della legge. Specie se la legge latita per l’impotenza o per la negligenza dei politici. È il caso della stepchild adoption: negata dal Parlamento, concessa dalla Cassazione (sentenza n. 12962 del 2016). Ma già nel 1975 furono i giudici ordinari a codificare il diritto alla privacy (la legge intervenne soltanto nel 1996). E sempre i giudici, ben prima dei politici, nel 1988 offrirono tutela al convivente more uxorio.
Una Repubblica male ordinata reca più danni d’una tirannia, diceva nel Cinquecento Donato Giannotti. È esattamente questo il morbo che intossica la nostra vita pubblica; e la Consulta, da parte sua, non è affatto vaccinata. Altrimenti non si spiegherebbero certe iniziative, certe scelte politiche travestite da responsi oracolari. Come il rinvio dell’udienza sull’Italicum: era fissata al 4 ottobre, ma un paio di settimane prima (il 19 settembre) sbucò un comunicato di rinvio, senza uno straccio di motivazione. Anche se la motivazione trapelava fra le righe: il referendum costituzionale di dicembre, guai a sovrapporre l’una e l’altra decisione. Così adesso, a referendum consumato (e fallito), la politica riprende il centro della scena. Ma è politica giudiziaria, è sentenza costituzionale, l’unica forma di politica che resta ancora in auge.