La libreria è quel luogo in cui tutti hanno cittadinanza. È quel luogo franco in cui donne, uomini, ragazze, ragazzi sono uguali tra loro. La pagina scritta non dà importanza alcuna al colore della pelle, alla religione; la pagina scritta non fa distinzione tra poveri e ricchi, tra noti e sconosciuti. La pagina scritta si dona, si affida. Per la pagina scritta la condivisione è il dono più prezioso ed è un dono che chiunque può fare.
Ecco perché ho deciso di avere con me in libreria, durante il tour di presentazione del mio nuovo libro, ragazze e ragazzi italiani ma senza cittadinanza, senza passaporto, senza quel diritto fondamentale che precede tutti gli altri: quello che ti consente di dire «sono italiano, non solo perché mi sento italiano, ma perché ho i documenti dello Stato italiano». In libreria con me ci sono ragazzi che si sentono italiani perché sono nati in Italia, perché hanno vissuto in Italia, perché hanno studiato in Italia, perché parlano italiano, ragazzi a cui la legge però non consente di essere italiani.
Qualcuno si chiederà come mai, per presentare un libro che parla di ragazzi e criminalità organizzata, io abbia invitato in libreria ragazzi italiani senza cittadinanza. A dire il vero è stato proprio mentre scrivevo “Bacio feroce” che ho capito con chi dovessi presentarlo; e l’ho capito quando ho scritto le righe cui forse sono più legato. È una sorta di appello a chi educa i propri figli, a chi li educa al rispetto del prossimo, a chi li educa all’obbedienza. A chi li educa a censurare le parolacce, a non copiare i compiti, a non sottrarre il giocattolo all’amico. A chi li educa ad ascoltare la posizione dell’altro e a cercare sempre una mediazione, a farsi valere senza il bisogno della prevaricazione e a pensare che la violenza sia ingiusta. L’ho capito mentre pensavo a chi prova a insegnare che un buon risultato dipende da un grande impegno. E l’ho capito mentre pensavo anche a chi invece educa i bambini alla diffidenza, a essere capaci di picchiare il vicino prima che picchi lui. A chi educa alle differenze, mostrando che nessuno è uguale a nessuno e che il nero, il giallo, il bianco, il mulatto sono tutti in guerra. Che la convivenza è arte ipocrita degli affaristi.
Ebbene tutti, ma proprio tutti hanno educato i propri figli dando loro la promessa di un mondo che non arriverà mai, di un mondo giusto o di un mondo di successi e realizzazione che non esiste.
Chi ha educato alla pace e alla guerra, al bello e al brutto, all’amicizia e alla furbizia, all’abbraccio e alla ferocia lo ha fatto secondo le regole di questo mondo, regole né buone né cattive: le regole dei vincitori. Nessuno educa al fallimento. Fallire significa provare, sbagliare e andare avanti. Accettare il fallimento significa non procedere in questo mondo con regole granitiche che, una volta infrante, portano con sé nella caduta tutto il resto.
Educare al fallimento significa non educare a essere i primi, perché per essere primi bisogna eliminare l’avversario e talvolta l’avversario lo si elimina non concedendo diritti legittimi. Ecco, in libreria accanto ho invitato ragazzi che vorrebbero in ogni istante della loro vita avere accesso al diritto e analizzano con me le storie di ragazzi che passano ogni istante della loro vita provando - riuscendoci - a uscire dal diritto.
Il primo incontro in libreria è stato quello di Milano; con me c’era Mohamed Rmaily, studente di giurisprudenza che sogna di diventare magistrato, ma senza cittadinanza non può investire tempo per il concorso perché non ha alcuna certezza sui tempi: a ora Mohamed non sa quando otterrà la cittadinanza e non ha quindi le stesse opportunità dei suoi compagni di corso. A Milano c’era anche Evelyne Afaawua, imprenditrice e blogger che lavora in Italia trovando ostacoli enormi che le sue colleghe italiane non hanno. E c’era Antonio Dikele Distefano, scrittore italiano senza cittadinanza. Erano con me a farmi domande sul mio libro e c’erano loro e non altri perché tutto ciò che riguarda il diritto spezza le storie di cui parlo: laddove c’è il diritto, la periferia dismette la sua necessità criminale. La strada del diritto interrompe la strada dell’illegalità.