Le sentenze decidono in assenza di legge. E cresce la fiducia nei magistrati. Come Pietro Grasso
Sul Rosatellum l’ultima parola sarà della Consulta (camera di consiglio il 12 dicembre). Sulla tortura decide la Corte di Strasburgo, a dispetto della (finta) legge approvata a luglio dalle Camere; tant’è che il 26 ottobre l’Italia ha ricevuto l’ennesima condanna per i fatti del G8. E sull’uso della cannabis? E sulla stepchild adoption? E sul testamento biologico? Sarà legge la legge dettata dai giudici comuni.
È l’atto finale della partita fra politica e giustizia, trasmessa a reti unificate lungo tutto il tempo della seconda Repubblica: hanno vinto i giudici, mentre i politici hanno perso anche l’onore. In passato questi ultimi riuscivano perfino a rimpiazzare gli avversari nel loro campo di gioco, esercitando le prerogative del potere giudiziario. Ne è prova, per esempio, l’Antimafia, una commissione parlamentare d’inchiesta che è al contempo un tribunale, e che si trascina da una legislatura all’altra fin dal 1962, alternando fin qui 15 diversi presidenti. Tuttavia, alla fine della giostra, l’imputato è proprio la politica, messa sotto accusa dall’opinione pubblica, dal sentimento prevalente.
Quale? Un moto collettivo di sfiducia, documentato dall’astensionismo elettorale (53% alle elezioni siciliane), espresso in numeri dal XIX Rapporto Demos. Dal quale risulta che solo 6 italiani su 10 credono ancora nei partiti politici, mentre la magistratura è l’istituzione con la miglior performance fra il 2015 e il 2016 (7% di fiducia in più), totalizzando il triplo rispetto al Parlamento, oltre 6 volte l’indice raggiunto dai partiti. Da qui il suo ruolo di supplenza, nella stagione in cui la politica dichiara la sua assenza. Giacché il favore popolare che circonda le toghe deriva dall’esigenza di colmare un vuoto, d’individuare un paladino dei diritti lasciati orfani dai nostri rappresentanti in Parlamento.
D’altronde è una legge di natura: se qualcuno lascia libera la poltrona su cui stava seduto, qualcun altro vi poserà le chiappe al posto suo. E la magistratura italiana non si è mai fatta pregare per turare i buchi del nostro ordinamento normativo. Nel 1975, con 21 anni d’anticipo rispetto alla legge votata dalle Camere, stabilì il diritto alla privacy; nel 1988 offrì tutela al convivente more uxorio (la legge sulle coppie di fatto è arrivata soltanto l’anno scorso); nell’agosto 2014 il tribunale per i minorenni di Roma scriveva la prima sentenza sulla stepchild adoption, un diritto che il Parlamento non ha mai tradotto in legge. Così come, d’altronde, restano nel libro dei desideri lo ius soli; il biotestamento; la legalizzazione della cannabis; il diritto a ricevere il cognome della madre, anziché quello del padre; l’accesso del figlio adottato alle informazioni sulle proprie origini; e via via, tutte promesse che la fine della legislatura spazza via.
Ecco, è su questa geografia di lacune normative che la magistratura viene sollecitata a svolgere il mestiere del supplente. E tutto sommato non è detto che sia un male. La regola generale - quella dettata da una legge - ha infatti il pregio di scolpire un quadro certo dei diritti e dei doveri, ma talvolta pecca d’astrattezza, d’indifferenza rispetto alla multiforme varietà dei casi personali. Invece ogni sentenza ha davanti un interlocutore in carne e ossa, con le sue sofferenze, con le sue specifiche esigenze. È il modello inglese della common law, che si regge sull’autorità del precedente giudiziario. Ma a quanto pare stiamo diventando inglesi pure noi italiani. Loro hanno avuto Brexit, noi Politexit.
È infatti il disamore verso la politica, ?è la disillusione per i troppi impegni traditi dai leader, che spinge il potere giudiziario ad occupare spazi che in passato gli erano preclusi. E le vicende della nuova formazione nata alla sinistra del Pd ne offrono la testimonianza più eloquente. Chi dovrà reggerne il timone? Dopo un balletto di figure allevate nelle stanze di partito, risuona un solo nome: Pietro Grasso. Lui, per 45 anni magistrato, negli ultimi 5 presidente del Senato, esprime la voce delle istituzioni, non della politica. E dunque è l’unico che può mietere voti. Perché di questi tempi la politica ha cambiato domicilio: si è trasferita presso le istituzioni non politiche.