È ormai il capro espiatorio di una classe dirigente che non cambia. Anzi moltiplica simboli e sigle. Per fare i propri interessi. Solo che i cittadini se ne sono accorti

Fermiamoci finché siamo in tempo. Il ritornello ha stancato. Il populismo, trumpismo, lepenismo, grillismo, salvinismo è ormai la scusa ufficiale della politica in crisi. Il capro espiatorio. L’orco nero che viene di notte. Come se fosse uscito dal nulla. Vogliamo dirci che è troppo comodo? Vogliamo provare a guardare dentro i fenomeni autoritari, da Trump a Putin, da Erdogan alle destre xenofobe che si contendono l’Europa? Se lo facciamo appare chiaro che la risposta «è colpa del populismo» è banale. Anzi, lei sì populista.

La verità - per un Occidente che ha sempre previsto tutto, sempre programmato tutto, sempre promesso tutto e mantenuto poco o nulla - è difficile da digerire. Come una diagnosi nefasta. Ma, allo stesso modo, è indispensabile affrontarla. E in tempo. Se si vuole avere una, anche solo una, speranza di guarigione.

I sintomi ci sono tutti. Sul numero dell'Espresso in edicola da domenica 19 abbiamo intervistato Valéry Giscard d’Estaing. Federalista ed europeista convinto, è stato presidente della Repubblica francese e presidente della Convenzione europea. Forse l’uomo che più di tutti ha creduto che quel progetto economico potesse mutare in qualcosa di politico e potesse avere un futuro. Non è certo un populista. Forse è l’opposto esatto di ciò che oggi definiamo, erroneamente, con questo termine. Eppure le sue parole sono durissime. Lucide e senza sfumature. L’Unione europea, come l’abbiamo costruita, come è diventata, non piace. Non funziona. Sta fallendo. Anzi morendo. Al punto che è lui, il padre spirituale di quella Convenzione che fallì per il no di Francia e Olanda, a proporre di ricominciare. Da un’aggregazione politica più piccola e più coesa.


Culturalmente ed economicamente. Significa ammettere di avere sbagliato. Per rimediare, serve stringere alleanze fra grandi Paesi e fra grandi famiglie politiche. E, con un progetto concreto, proporre ai popoli impoveriti e delusi una deviazione netta del viaggio.

Invece a cosa assistiamo? In Italia più che mai, alla frantumazione dei partiti in correnti, alle scissioni di comodo, alle scissioni di partiti già scissi, fino alla moltiplicazione delle sigle e dei simboli in un caravanserraglio elettorale che è la cosa più lontana dalla richiesta dei cittadini e, soprattutto, è il cibo preferito del populismo che vorremmo ferire o sconfiggere.

Noi ce ne stiamo qui a brontolare, a dire che Trump è un pazzo, a ripeterci che abbiamo ragione e chi vota per loro è solo un ignorante o un folle, e mentre lo diciamo sotto l’ombrello di un sistema proporzionale fuori dal tempo, il Palazzo pensa di fregare il popolo con qualche piroetta elettorale o qualche ghirigoro sulla scheda. È convinto di dominare con giochetti da Prima repubblica la grande sfida della democrazia, la crisi dei valori che sembravano immu tabili, l’avvento dell’autoritarismo che conquista chi non ha più nulla da perdere. Se non ci fermiamo in tempo perderemo. Perché stiamo facendo proprio quello che, là fuori, chiamano «interessi delle élite». Mentre dovremmo fare quelli del popolo.

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