Lo spavaldo Trump già vacilla e guarda al passato. Anche se il merito è dei repubblicani. Ma in Europa Putin e Erdogan flirtano con i populismi. Fenomeno che va prima capito. E poi fermato
Come polvere di gesso soffiata via dal vento dei nuovi populismi, abbiamo l’impressione che la linea di demarcazione del campo politico in cui giochiamo la partita della sopravvivenza delle democrazie stia scomparendo. Questo genera in noi due diverse reazioni: la paura del futuro, l’idea cioè che il nostro sistema di idee e valori possa essere rovesciato; l’attrazione irrazionale per chi ci vuole sudditi, lo stravagante desiderio di somigliare ai nuovi Cesari (con picchi di ironia: Bersani ormai stalker politico di Beppe Grillo). In questo numero, L’Espresso analizza i due sentimenti opposti che spaccano l’Europa e il nostro Paese e che, se non compresi in tempo, rischiano di portarci a una crisi non solo politica ma antropologica del nostro modello di convivenza. Abbiamo di fronte tre volti diversi, eppur contigui, di quelle che possiamo chiamare le nuove dittature, diverse dal secolo scorso, ma pericolose su scala globale: l’America di Trump, la Russia di Putin, la Turchia di Erdogan. E un interrogativo: siamo cambiati anche noi per colpa loro?
I primi mesi di Trump alla Casa Bianca portano già i segni della crisi. Un consenso fra i più bassi mai registrati. I dubbi degli americani su The Donald alla prova dei fatti. Ci mostrano, insomma, una caratteristica di questo tipo di potere: il populismo fa e disfa a parole, ma è impreparato a governare. Odora di reazione, guarda indietro. E se non possiamo dire che Trump sia già finito, certo vacilla. Dopo la débâcle sull’Obamacare (conseguenza dell’opposizione che finora hanno fatto i repubblicani di destra), il presidente si lancia su carbone e infrastrutture. Proiettandosi in un futuro che odora di antico. E negando di fatto all’America il ruolo di pioniere economico e culturale del pianeta.
Eppure in Europa non solo Trump piace ancora ai partiti anti-sistema, c’è chi è attratto dal fascino oscuro degli altri dittatori moderni. Sia nella Russia di Vladimir Putin, dove il pugno di ferro non trova uffici federali né giudici a far da scudo allo Zar, come invece negli Usa avviene, ma risveglia una nostalgia sovietizzante, l’eco della falsa potenza che finge di rialzarsi, tira a lucido i monumenti, ma al tempo stesso serra le manette ai polsi di chi dice no e tiene il popolo in miseria. Poi c’è Recep Tayyip Erdogan, che ammaliò l’Occidente (si parlò di una Dc islamica, mostrando i limiti di immaginazione che accecarono l’Europa) ma che ora ha tolto il velo al suo progetto: cercare una via pseudo-democratica al potere eterno, un sultanato in versione millennials fatto un po’ di botte e un po’ di referendum.
Quanto ci costa tutto questo? L’Espresso prova a misurare l’ombra che i democratori allungano su di noi. Alla vigilia delle elezioni in Francia, dove il “piccolo principe” Macron tenta di fare da argine alla sconfitta del sistema democratico. E alla vigilia della campagna elettorale che in Italia si aprirà con le primarie del Pd. Il rischio? Che non ci crediamo abbastanza. Noi per primi. E che si perda di vista l’urgenza di azioni capaci di distogliere il popolo dal miraggio del Grande Capo. Capaci di parlare al Paese che - già si scorge negli Usa - sa che la rivoluzione a parole è facile ma pericolosa. Perché avvia una regressione politica, economica e culturale. Che per noi sarebbe il baratro.
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