Cento anni fa la storica disfatta. Nella tragedia dell’esercito italiano, il racconto comico di un prozio generale
Se mi sento di casa in questa Italia - scrivo da Udine -, sebbene non vi sia nato né vi abbia vissuto, è perché i nomi dei luoghi della Grande Guerra, di cui è stata il teatro, ricorrevano spesso in famiglia durante la mia infanzia e adolescenza. E mi sono rimasti nella memoria. Credo alla vita prenatale: e quella parte della mia esistenza, senza traccia anagrafica, si è svolta nella valle dell’Isonzo. Là si conobbero mia madre volontaria crocerossina e mio padre ufficiale medico. Si sposarono una decina d’anni dopo. Ma tra una battaglia e l’altra dell’Isonzo si crearono le premesse alla mia nascita. La dodicesima battaglia fu quella di Caporetto, di cui ricorre quest’anno, in ottobre, il centesimo anniversario. E per me, in qualche modo “figlio della Grande guerra”, non è soltanto una data storica, la più nefasta per il Regio Esercito poiché ricorda la sua più grave disfatta. Oggi Caporetto è in Slovenia e si chiama Kobarid.
È per avere visto tanti giovani morire, che mio padre, un cattolico antimilitarista, ritornato alla vita civile, appena spogliatosi della divisa, decise di dedicarsi come medico alle nascite, alla maternità. Mia madre era invece una cattolica fedele ai ricordi di guerra. Cammino per le strade di Udine, sobria ed elegante, e non posso evitare di immaginare la giovane crocerossina e il medico neo laureato nella città popolata di divise (il generale Cadorna vi aveva il quartiere generale), smarriti, intimoriti ma anche elettrizzati dal dramma in cui erano immersi.
Di quei giorni d’ottobre 1917 mi parlava spesso un prozio, generale “a riposo”, che al momento dell’offensiva austro-ungarica e tedesca era colonnello dei carabinieri a Udine. Lo zio Emilio era di corporatura massiccia. Calzava sempre stivali, anche d’estate, e la sua voce era gorgogliante per il frequente flusso di catarro. Era ormai da tempo in pensione. Dormiva su una branda militare e un giorno mise sull’attenti il figlio, a sua volta ufficiale dell’Arma venuto a trovarlo durante una licenza, perché aveva rovesciato un vaso con i pesci rossi. Quando morì d’infarto aprendo il cancello della villetta in cui abitava, non lontano dal Po, il re mandò due corazzieri al suo funerale. Con noi nipoti giocava a mercante in fiera e la posta in gioco erano dei fagioli.
Ci raccontava spesso brontolando di quello sbadato del suo attendente al quale nei giorni dell’offensiva d’ottobre, nella prospettiva, poi realizzatasi, che gli austriaci entrassero a Udine, aveva lasciato due bauli. In uno aveva messo scarpe vecchie e divise logore; nell’altro abiti e biancheria in buone condizioni e oggetti di valore. Era evidente quale dovesse essere salvato. E invece lo zio Emilio si trovò sulla linea del Piave, dove fu fermata l’avanzata nemica, con un baule di scarpe vecchie. Il racconto ci divertiva, e visto il successo lui lo arricchiva. Imberbi ascoltatori ammiravamo l’autorità del nostro imponente compagno quando ci illustrava, tra due partite di mercante in fiera, il suo ruolo durante la ritirata di Caporetto. Dal ciglio della strada osservava il fiume di soldati in fuga, e individuava gli ufficiali che avevano abbandonato il reparto di cui erano responsabili. E li apostrofava: «Dove sono i vostri uomini?». Le sue parole, impallidite dal tempo nella memoria, assumono un significato drammatico se accostate ad altre famose testimonianze, storiche e letterarie, sulla giustizia sommaria durante quella ritirata. Ma nel racconto del nostro generale non c’era nulla di tragico, e lui restava per noi bambini un nume dolce e ammirato.
Di quei giorni racconta preciso Carlo Emilio Gadda. Nel diario di guerra il sottotenente della 470esima Compagnia mitraglieri scrive come fu fatto prigioniero. «Lasciammo la linea dopo averla vigilata e mantenuta il 25 ottobre 1917, dopo le tre, essendo venuto l’ordine di ritirata. Portammo con noi tutte le quattro mitragliatrici, da Krasjj (Krasii) all’Isonzo (tra Ternova e Caporetto) a prezzo di estrema fatica. All’Isonzo, mentre invano cercavamo di passarlo, fummo fatti prigionieri… La fila di soldati sulla strada d’oltre Isonzo: li credo rinforzi italiani. Sono tedeschi!». Gadda e i suoi soldati abbandonano le artiglierie, fracassano le mitragliatrici. Lo scrittore conclude quel giorno di cent’anni fa: «tragica fine».