Intanto cominciamo a intenderci sulla formula “poteri forti”. Perché se uno li identifica - pur senza spingersi fino al club Bilderberg o ai governi invisibili - con le grandi banche, la tentacolare finanza internazionale e i big dell’industria, be’, allora questo è il punto debole di Marco Minniti, 61 anni, già comunista dalemiano e poi dem veltroniano, in gioventù boy-scout e grande pescatore subacqueo nei mari ?di casa, quelli calabresi, oggi apprezzato (e da altrettanti contestato) ministro dell’Interno e pure candidato, magari a sua insaputa, a più alte leadership: con quel club esclusivo e un po’ misterioso ha pochi rapporti anzi nessuno, scarsa simpatia per gli argomenti a essi cari ?e forse anche per le persone che ?lo animano. Su quel versante c’è ?un vuoto significativo, diciamo.
Se invece pensiamo ad altri poteri, altrettanto forti e perfino più invisibili - generali e servizi segreti, poliziotti, giudici e intelligence - allora qui Minniti naviga da par suo almeno da una ventina d’anni. Tutto sta a capire quanto davvero pesino gli uni e gli altri in una teorica disfida elettorale o nella costruzione di un’immagine del tutto autonoma da quella di altri politici di professione. Mario Monti, per esempio, ironizzò sulla fine del suo governo tecnico lacrime e sangue alludendo ?a manovre dei poteri forti: sarcasmo bocconiano da parte di chi era diventato premier, si insinuò all’epoca, proprio con il consenso di quegli stessi poteri forti. Ma forse un pizzico di verità in quelle parole c’era. O no? Chissà.
Massimo D’Alema, invece, tranchant e sprezzante come sempre, precedendo ?di molto Maurizio Crozza, lo aveva già bollato al momento della nomina a ministro dell’Interno - «Farà perdere ?al Pd altri cinque punti» - e ora ridimensiona una sua possibile corsa alla leadership: «È un tecnico, si è sempre occupato solo di sicurezza». ?Per uno come Max, che ha sempre rivendicato il primato della politica, è una bocciatura senza appello. Il lìder maximo, peraltro, che di poteri forti s’intende eccome, Minniti lo ha conosciuto bene negli anni in cui lui era presidente del Consiglio e l’altro uno dei fedelissimi che però, meno loquace e onnipresente di Velardi La Torre e Rondolino, preferiva tessere in silenzio la sua personale rete con spioni e stellette. Ma di tutti gli inquilini di Palazzo Chigi, allora definita “l’unica merchant bank in cui non si parla inglese”, Francesco Cossiga, che come si sa subiva il fascino di ogni forma di potere, prediligeva però proprio Minniti, tanto da fondare più tardi insieme ?a lui l’Icsa, think-tank in cui magistrati, ambasciatori, generali e ammiragli discutono di sicurezza e intelligence.
E allora, torniamo al cuore della nostra breve indagine: per i protagonisti di quei poteri forti economici e finanziari che, con o senza il limitativo “quasi” caro a Ferruccio de Bortoli, di più alimentano l’immaginario collettivo, Minniti è una scoperta recente. Del resto, quando ?non si è occupato di sicurezza è stato plenipotenziario del partito in Calabria ?e poi all’organizzazione a Roma, lavori preziosi ma oscuri, di apparato e poco visibili, e comunque lontani da quel mondo. Insomma nelle loro agende ancora non figura, e infatti a Cernobbio, dove quella speciale casta celebra ogni anno i suoi fasti, c’erano perfino ?Di Maio e Salvini, ma lui non s’è visto.
In compenso a maggio, ministro ?da pochi mesi, sedeva in prima fila all’assemblea della Confindustria, perché con gli imprenditori, in realtà, qualche contatto c’è: intenso con l’Eni, per via delle molteplici questioni libiche; più istituzionale con la Confindustria ?che ha appena firmato accordi con il ministero dell’Interno sulla formazione dei migranti. Temi assai cari al mondo dell’impresa: sicurezza fa rima con stabilità, che è la parola più amata da chi fa affari. Per questo gli imprenditori gli riconoscono serietà, professionalità ?e piglio decisionale, qualità preziose per quel mondo: e infatti il loro giornale, “Il Sole 24 Ore”, lo segue con attenzione, lo apprezza, lo incoraggia.
E quindi, che dobbiamo dedurre, che ?un certo feeling c’è o potrebbe nascere? Calma. In quella stessa assemblea nella quale Minniti ha debuttato seduto accanto ad altri sei ministri del governo Gentiloni, la scena è stata tutta di Carlo Calenda, un altro tecnico con smisurate velleità politiche che, se volete, del nostro è in qualche modo l’opposto anche se, come accade tra diversi, paradossalmente qualche cenno biografico perfino si incrocia. Un (brevissimo) passato da comunista, pensate, ce l’ha avuto pure Calenda: mentre Minniti cercava di mettere in riga il partito in Calabria, lui militava giovanissimo nel Pci-Pds a Roma (con Matteo Orfini, stesso liceo Mamiani, stessa federazione giovanile), forse più per l’aria respirata in famiglia - il nonno Luigi Comencini, grande regista, era un leader di quel cinema romano molto “de sinistra” - che per convinzione profonda. Tanto che poi l’uno ha scelto la politica e il partito, l’altro la Ferrari ?di Luca Montezemolo, che più tardi seguirà anche in Confindustria come assistente personale e poi nella breve avventura politica di Italia futura.
Con gli imprenditori, insomma, Calenda gioca in casa, li ha conosciuti uno per uno, prima da massimo dirigente dell’organizzazione poi come ministro, sa quali tasti spingere, quali corde suonare, per esempio quella del tecnico prestato alla politica da quel pubblico considerata da sempre carta vincente («Ai tecnici non è preclusa la politica», e giù applausi dall’assemblea) pronto a rilanciare liberalizzazioni e privatizzazioni, nuovi investimenti per modernizzare il sistema produttivo (Industria 4.0) e norme contro le scorrerie straniere (che sembrano fatte su misura per Mediaset sotto attacco ?di Vivendi, ma che piace a tutti gli imprenditori): «Complimenti, abbiamo ?il nostro Macron», ha commentato un estasiato Fedele Confalonieri. «Questo è un manifesto di governo», gli ha fatto eco Massimo Mucchetti, Pd, e la cosa fa tornare alla mente che a Pier Luigi Bersani quel Calenda lì non dispiace affatto, e non solo perché ogni cosa che dice va in direzione opposta e contraria a quella di Matteo Renzi.
Dunque Calenda, molto più che Minniti, sembrerebbe fatto apposta per convincere i poteri forti, anche per quella tendenza innata a cercare consensi sia a destra sia a sinistra, ?ma con il vantaggio di essere più simile a loro di Renzi ieri o di Minniti oggi. Infatti, come Bersani, anche Berlusconi ci aveva fatto un pensierino. E dunque ?è a costui che guarda questa fetta ?di establishment? Troppo facile. Imprenditori, finanzieri, banchieri - governativi per dovere d’ufficio - sono troppo navigati per non annusare dove giri il vento e soprattutto chi disponga
della forza e dell’apparato necessario per timonare la barca nella direzione voluta. Ci vuole ben altro per distrarli. Poi, quando sarà il momento...
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