Salute
18 luglio, 2025La prevenzione trascurata. Un sistema pubblico sovraccarico. E le nuove tecnologie da integrare per migliorare le cure
Le malattie cardiovascolari restano la principale causa di morte in Europa, e l’Italia non fa eccezione. Eppure, la prevenzione viene spesso trascurata, soprattutto nella medicina territoriale. Un deficit che diventa ancora più pericoloso in estate, quando le temperature mettono alla prova anche un cuore sano. Ne parliamo con il cardiologo clinico Massimo Romano, responsabile della Cardiologia delle cliniche Villa Claudia e Villa Salaria, tra i pionieri della prevenzione cardiovascolare nel Lazio.
Il caldo estivo rappresenta un pericolo per il cuore?
«Le ondate di calore sono una criticità per tutti, ma in particolare per i pazienti con patologie cardiovascolari, spesso inconsapevoli della loro condizione. Con il caldo aumenta il rischio di disidratazione, specialmente in chi assume farmaci come diuretici o antipertensivi. Una terapia adatta in inverno può diventare pericolosa in estate. Ecco perché è fondamentale, prima della stagione calda, un controllo dal cardiologo per rivalutare le cure».
Manca una cultura della prevenzione cardiovascolare?
«Sì, purtroppo. Nonostante le malattie cardiovascolari siano la prima causa di morte in Italia, la prevenzione resta carente. Il nostro sistema sanitario è sotto pressione e risponde più all’emergenza che alla prevenzione strutturata. Eppure oggi abbiamo strumenti diagnostici efficaci e accessibili che permetterebbero di intercettare in tempo patologie gravi».
Quali sono le categorie di popolazione più a rischio?
«Gli anziani, naturalmente, perché hanno più comorbidità. Ma anche diabetici, fumatori, ipertesi, chi ha colesterolo elevato, e spesso trascurati, i pazienti obesi. L’obesità è una patologia cronica a tutti gli effetti, ma in Italia non viene ancora gestita come tale».
Il genere influisce sul rischio cardiovascolare?
«Sì. Nelle donne giovani gli estrogeni proteggono il cuore, ma dopo la menopausa il rischio cresce e spesso supera quello maschile. Il problema è che molte donne non si percepiscono a rischio: si sottopongono con regolarità a controlli ginecologici, ma trascurano completamente la prevenzione cardiovascolare. Anche con una forte familiarità».
A che punto siamo con le terapie innovative?
«La cardiologia ha fatto grandi progressi. Farmaci innovativi come gli agonisti del Glp-1 e gli inibitori del Sglt2, nati per il diabete, sono oggi centrali nella cura dello scompenso cardiaco: migliorano la funzione del cuore, riducono eventi gravi e contribuiscono ad aumentare l’aspettativa di vita dei pazienti cardiopatici. Ma resta un limite importante: l’accesso. Servono piani terapeutici e prescrizioni specialistiche, e la burocrazia rallenta l’uso di queste terapie».
Sul fronte tecnologico cosa c’è di nuovo?
«Abbiamo tecnologie diagnostiche straordinarie come l’angio-TC coronarico, la risonanza magnetica cardiaca e gli ecografi di ultima generazione che permettono diagnosi sempre più accurate e tempestive. Ma il vero problema è l’accesso a queste risorse. In molti ospedali pubblici questi esami non sono facilmente disponibili: le liste d’attesa sono lunghissime e ci si rivolge al privato. Ma sono macchinari molto costosi, che richiedono competenze avanzate che non tutte le strutture possiedono».
E in ambito interventistico?
«Ci sono innovazioni importanti: l’uso del laser in casi complessi di coronaropatia, la chirurgia robotica, i dispositivi Ccm per migliorare la contrattilità cardiaca nello scompenso avanzato. Anche la denervazione renale è una novità interessante per l’ipertensione resistente. Sono progressi significativi, ma che richiedono personale esperto e strutture adeguate».
La telemedicina può davvero cambiare la gestione del paziente cardiologico?
«Sì, ma va integrata con il resto. I dispositivi indossabili, le app e le piattaforme digitali migliorano il monitoraggio, riducono ricoveri e permettono interventi più tempestivi. Ma da soli non bastano. Serve sempre una valutazione clinica attenta e accessibile, soprattutto per i pazienti più fragili».
Cosa ostacola oggi la personalizzazione delle cure?
«Oggi, purtroppo, la possibilità per il medico di personalizzare le cure in base alla specifica condizione del paziente è sempre più limitata. Ogni paziente è unico: ha un insieme di patologie e caratteristiche individuali che richiedono un approccio su misura. Mentre invece, tutto è sempre più settorializzato. Ogni specialista guarda il suo “pezzo”, ma la medicina vera richiede una visione d’insieme».
Lei crede nell’umanizzazione della medicina?
«Non è che ci credo: è la mia ragione di vita. La medicina, per me, è prima di tutto relazione, ascolto, contatto umano. Oggi i medici rischiano di perdere la libertà di giudizio clinico, perché ogni deviazione dal protocollo può comportare conseguenze anche di natura assicurativa o legale. Ma la medicina non può essere solo aderenza a schemi. È fatta di persone, non solo di procedure. Per questo consiglio ai giovani medici di non dimenticare mai l’ascolto. La medicina non è solo diagnosi, ma relazione».
Il Covid ha lasciato un segno sulla salute del cuore?
«Sì, molto. Già prima della pandemia vedevamo aumentare casi di versamento pericardico e polmoniti atipiche. Poi, con l’arrivo del Covid, l’impatto sul cuore è diventato evidente: miocarditi, aritmie, stanchezza cronica».
Si è abbassata l’età dei pazienti cardiopatici?
«Sì, è un dato che va preso molto sul serio. Il Covid, d rettamente o indirettamente, ha modificato il profilo di rischio di molte persone. Ci sono giovani adulti con storie cliniche che prima vedevamo solo in età molto più avanzata».
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