Mi hanno parlato di G., un ragazzo di diciott’anni. La sua famiglia è originaria dell’America Latina, ma i suoi genitori vivono in Italia da molto tempo; hanno trascorso più anni in Italia che nel loro Paese d’origine. G. è nato qui, come le sue due sorelle, una maggiore e una minore.
Mi hanno detto che G. ha la pelle più scura rispetto alle sue sorelle e mi hanno detto anche che lui e le sue sorelle sono bellissimi. Ci sono dei momenti nella vita di ciascuno di noi in cui il desiderio più forte che abbiamo è essere uguali. Uguali ai nostri amici, uguali ai nostri familiari. Semplicemente uguali. Ci sono momenti nella vita di ciascuno di noi in cui il più grande desiderio che ci capita di avere è riuscire a mimetizzarci. In genere, ma non sono un esperto, ci imbattiamo nel desiderio di essere come gli altri quando dentro ci sentiamo completamente diversi. Quando stiamo crescendo e dobbiamo capire che direzione prendere.
Ecco, nella fase più delicata della sua crescita, mi hanno detto che a G. è successo non solo di sentirsi diverso, ma anche di essere trattato come diverso. La pelle scura lo rendeva unico, unico anche nella parte di famiglia che vive in Italia. G. forse avrebbe desiderato essere più chiaro, più invisibile, meno unico. Avrebbe voluto forse vivere la sua crescita senza interferenze, senza dover difendere il colore della sua pelle.
G. – mi dicono – ha una passione, una passione grande per il calcio. Una passione che dura da tanto. Dopo la scuola G. prendeva un pullman e andava in un paese vicino ad allenarsi e poi, crescendo, ha iniziato ad allenare lui stesso i bambini che iniziavano a giocare. Una storia comune, penserete. Una storia tutto sommato moderna, di lenta integrazione. Ma certamente di integrazione.
Quello che non ho scritto è che G., come ha fatto sua sorella maggiore prima di lui e come farà sua sorella minore quando ne avrà la possibilità, ha dovuto aspettare diciott’anni per chiedere ufficialmente di essere cittadino italiano. Non è un dettaglio.
Ricordo che quando ho compiuto diciott’anni le prime due cose che ho subito immaginato di poter fare furono iscrivermi a scuola guida e ricevere la tessera elettorale, possedendo di diritto ciò che mi avrebbe consentito di partecipare alla vita adulta. Ero nato in Italia, dunque ero italiano. G. no. G. è nato in Italia, ma non è automaticamente italiano. E non è nemmeno altro, dato che l’Italia è il suo Paese, da sempre.
Ma c’è di più. G. è nero e, forse, essere italiano, avere una carta d’identità italiana, lo avrebbe aiutato a superare i momenti più delicati. Non lo avrebbe certo messo al riparo dall’ottusità, dall’ignoranza e da una certa dose di cattiveria che porta a fare commenti razzisti, ma non avrebbe posto sulla sua strada anche inutili incombenze burocratiche.
Mi dicono che ai genitori di G. non puoi fare a meno di voler bene perché sono sempre sorridenti e disponibili con tutti. Mi dicono che sono due grandi lavoratori e che hanno aiutato G. a superare i momenti più difficili tranquillizzandolo e assecondando la sua passione per lo sport.
Ma perché vi sto parlando di G.? Perché domenica scorsa ho raccontato in televisione cosa accade ai confini dell’Europa, in mare, in Africa. Ho commentato le foto di chi, negli anni, si è occupato di testimoniare i viaggi nel deserto, le traversate in mare, il momento del soccorso, le piccole imbarcazioni minacciate dalle onde, le conseguenze dei naufragi, corpi vivi, corpi morti. Ho raccontato la forza di chi materialmente aiuta. Di chi lascia il proprio angolo tranquillo per soccorrere in mare e ovunque ce ne sia bisogno, insieme alle Ong che in questi anni hanno subito ogni sorta di attacco.
Mi hanno riferito che G. ha ascoltato il mio racconto ed è rimasto colpito da quelle foto e da quelle storie. Mi hanno detto che, secondo G., quelle storie bisognerebbe conoscerle per comprendere le sofferenze di chi lascia la propria terra, perché nessuno lascia la propria terra se non si sente costretto a farlo.
Ringrazio chi mi ha riportato le parole di G. perché il suo sguardo e il suo interesse danno senso al mio lavoro. Perché G. a sua volta racconterà queste storie e il passaparola è il miglior antidoto contro le balle che la politica racconta sull’immigrazione.
Opinioni
20 maggio, 2019Storia di un adolescente e di un passaparola: il miglior antidoto contro le bugie che la politica racconta su chi è costretto a lasciare la sua terra
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