Exit è il titolo di una graphic novel pubblicata da BeccoGiallo nel 2019. L’ho comprata quando è uscita, ma l’ho letta solo adesso, dopo l’assoluzione di Marco Cappato dal processo in cui era imputato per aver aiutato Fabiano Antoniani, dj Fabo, a liberarsi da una vita insopportabile. È stata, credo, una forma di scaramanzia. Exit è quello che troviamo scritto sui varchi che ci garantiscono una via di fuga. Exit è la scritta che, ovunque andiamo, dobbiamo vedere per capire se stare dentro sia una nostra scelta o una insopportabile costrizione.
Il libro, lo dico subito, è adatto a tutti, non solo coloro i quali sono a favore di una legge sull’eutanasia. Per tutti intendo proprio tutti. E primi tra tutti gli studenti delle scuole medie e superiori. Questo libro è uno strumento utilissimo che ogni prof ha a disposizione non per condizionare i propri studenti ma per informarli, per dare loro una visione storica del dibattito sul fine vita dalla nascita della terapia intensiva, dalla creazione dei primi polmoni artificiali, anzi dal Giuramento di Ippocrate. Aiuterà professoresse e professori a introdurre quel tema di cruciale importanza che è l’autodeterminazione. Fino anche punto siamo liberi? E se non lo siamo, cosa ci impedisce di esserlo? E l’informazione assolve al suo ruolo? E la Chiesa quale posizione ha avuto? Davvero ci troviamo di fronte a un monolite o la Chiesa di Pio XII, nel 1957, si pose già il problema su come utilizzare farmaci anti-dolore anche se il loro effetto avrebbe potuto abbreviare la vita del paziente?
In un libro di solo testo le parole si susseguono senza soluzione di continuità, nelle graphic novel le cose vanno diversamente, vivono dell’equilibrio costante tra testo e disegni che non devono prevalere l’uno sugli altri. In questo caso sarebbe stato facile per il testo fagocitare le tavole, perché Gloria Bardi ne ha elaborato uno personalissimo ma rispettoso dei pensieri e delle parole dei protagonisti, eppure il tratto di Luca Albanese è formidabile e riproduce con la fedeltà vera, quella che risiede nei particolari, tutti i protagonisti della storia del fine vita.
Il libro segue un ordine cronologico che rappresenta una scelta per me efficacissima, ma se posso dare un consiglio a chi lo leggerà, il mio suggerimento è di aprirlo a pagina 144 e di leggere per primo il capitolo che racconta cosa è accaduto a Michele Gesualdi. Nel 2012, l’allievo prediletto di don Milani, due volte presidente della Provincia di Firenze, scrive una lettera per accelerare l’iter sull’approvazione del testamento biologico. Gesualdi è malato di Sla e sa di avere poco tempo perché presto sarebbe diventato «uno scheletro di gesso con due tubi, uno infilato in gola con attaccato un compressore d’aria per muovere i polmoni e uno nello stomaco attraverso il quale iniettare pappine alimentari». Gesualdi scrive nella sua veste di credente, di Uomo di Stato, di malato e di appartenente e un nucleo familiare che ben presto verrà chiamato, nella totale solitudine, a prendere una decisione dolorosissima: quella di lasciar morire la persona amata.
Gesualdi, come Uomo di Stato richiama i suoi ex colleghi alle loro responsabilità, invitandoli a prendere una decisione; come malato prefigura tutte le tappe della malattia, spiegando come la mente rimanga lucida in un corpo immobile, in un corpo-prigione. Come membro di una famiglia, quella stessa famiglia a cui la politica finge sempre di dare centralità, racconta senza sconti la solitudine profonda, infinita e dolorosa in cui è abbandonato chi ha parenti affetti da patologie il cui esito sarà inevitabilmente e dovrebbe essere, senza ulteriori sofferenze, la morte. Ma le parole più toccanti Gasualdi le ha pronunciate da credente. Come osa l’uomo sfidare Dio? dice. Come osa tenere in vita un corpo martoriato? Come osa imprigionarne l’anima?
Per chi per la prima volta si accosta al tema del fine vita, vale la pena iniziare da qui, da questa lettera commovente ma lucida che ci spiega che esiste una condanna ingiusta tanto quanto quella a morte ed è la condanna a vita. Perché «tra il niente lecito e il tutto lecito, che deresponsabilizzano, c’è lo spazio della decisione responsabile». Ecco, io credo che l’essere donna e uomo, oggi come ieri, come sempre, non possa prescindere dall’assumere su se stessi, alla luce del sole e senza delegare a terzi - Stato o Chiesa - decisioni che riguardano noi e soltanto noi, nel rispetto di ciò che siamo e di ciò in cui crediamo.