La norma che dovrebbe intervenire sulla presunzione di innocenza pone forti limiti l diritto all’informazione. E, in aggiunta, rafforza la distanza tra indagati “eccellenti” e quelli “comuni”

Una direttiva europea del 2016 ha come oggetto l’adozione da parte degli Stati membri di alcuni interventi sul principio della presunzione di innocenza: di qui un decreto legislativo entrato in vigore in Italia il 14 dicembre 2021. Anche in questo caso è stata evocata la formula, un po’ logora, «ce lo chiede l’Europa», che però non impedisce di notare come nel nostro ordinamento il principio sia già consacrato nella Costituzione, per cui ci si chiede se fosse proprio necessario un intervento ulteriore. Tanto più che oltre al precetto costituzionale vi sono anche specifiche disposizioni per reprimere eccessi o abusi nelle esternazioni sui processi (una direttiva del Csm del 2018 insieme a varie ipotesi di illecito disciplinare previste dalla legge per i magistrati). In ogni caso, se la direttiva europea offriva un dito, certi sedicenti garantisti nostrani si son presi il “classico” intero braccio. Arrivando a stabilire che la diffusione al pubblico delle informazioni relative ai procedimenti penali è consentita solo «quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrano altre specifiche ragioni di interesse pubblico». Il che pone tutta una serie di gravi problemi.

 

Innanzitutto la formula usata investe tutta l’informazione giudiziaria, a prescindere dal fatto che venga in considerazione la posizione di questo o quell’indagato. Ed è stato autorevolmente osservato (in particolare da Vladimiro Zagrebelsky) che nella sua assolutezza la norma potrebbe comportare l’irragionevole conseguenza di limitare il diritto di informare e di essere informati. Diritto inalienabile quando si tratta di attività giudiziaria, posto che essa (come ogni altra attività pubblica) deve assoggettarsi al controllo sociale in punto di correttezza, coerenza e affidabilità. Tanto più che se i Pm non parlano, o possono parlare solo come fossero imbavagliati dentro una gabbia, per tutti i mezzi d’informazione l’alternativa sarebbe chiudere i servizi di cronaca o trovare altre fonti, facendo “suonare” campane che facilmente potranno risultare inquinate.

 

Con effetti perversi quando l’indagato sia interessato non solo a vedere riconosciuti i propri diritti, ma soprattutto a vedere soddisfatti i propri interessi: tanto da porre in essere tutto ciò che può servire ad arginare le offensive che mirano a colpirne l’immagine nell’opinione pubblica, anche richiedendo al proprio legale – oltre a un impegno “tecnico” – un concreto aiuto in tale direzione.

 

A questo punto ecco alcuni interrogativi: può accadere che il processo interpretato sugli organi di informazione dalla parte privata richieda talora, per il naturale riequilibrio delle parti, una lettura speculare ad opera della parte pubblica? Alle imprecisioni o fantasie che accompagnano certe cronache, può il magistrato opporre precisazioni e chiarimenti a protezione del proprio lavoro, delle parti offese e degli interessi in gioco? Il decreto legislativo sbrigativamente riferito alla sola presunzione di innocenza sembra escludere tali possibilità.

 

Ma attenzione, così si avvantaggiano gli indagati “eccellenti” e si rafforza una grave asimmetria che caratterizza il nostro sistema penale: la compresenza di due distinti codici, uno per i cittadini “comuni” e uno per i “galantuomini” (cioè le persone giudicate, in base al censo o alla posizione sociale, comunque per bene...); destinati, il primo, a segnare la vita e i corpi delle persone e - il secondo - a un approccio più soft, in particolare misurando l’attesa che il tempo si sostituisca al giudice nel definire i processi per prescrizione (o improcedibilità). Mentre le norme sulla presunzione di innocenza possono di fatto consolidare tale asimmetria, il governo e la ministra Cartabia dovrebbero, per contro, preoccuparsi di eliminare lo sfregio che essa rappresenta alla nostra Costituzione.