Dall’Unione Europea dipendono i soldi del Pnrr e i conti pubblici. Continuare a dirsi amici di Orbán può costare caro

E se la pacchia fosse davvero finita? Non per Bruxelles, ma per colei che ha lanciato la minaccia: Giorgia Meloni. Perché il paradosso vuole che per difendere fino in fondo l’“interesse nazionale”, il suo mantra politico, la prima donna premier della storia d’Italia dovrà dimenticare demagogie e sovranismi diffusi a piene mani in anni di opposizione facile e nel mese di una rutilante campagna elettorale. È questa la sfida.

 

Finora la politica e i mercati sono rimasti in surplace. E non solo perché Giorgia è stata accorta a sopire e chetare, ma anche perché giudicheranno dai fatti: aspettano che il nuovo governo squaderni la sua agenda, già densa di impegni da far tremare le vene e i polsi. Un ostacolo dopo l’altro: guerra, gas, inflazione, recessione. E le prime avvisaglie. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz, dopo aver sistemato zitto zitto le cose a casa sua con 200 miliardi (ha poco debito, se lo può permettere), ha ora accettato di partecipare a un piano europeo contro la crisi energetica finanziato, come quello anti Covid, con un impegno comune europeo. La Germania ci sarà, ma a una condizione: che Meloni non chieda di rinegoziare il Pnrr, come improvvidamente annunciato in campagna elettorale, richiesta che arresterebbe il flusso di finanziamenti e le riforme - utili a far sì che i soldi siano spesi presto e bene - a fronte delle quali sono stati concessi i fondi europei. Chiaro, no?

 

Insomma, Giorgia deve scegliere dove stare: o in uno splendido isolamento nazionalistico, o con l’Ue che ha dato all’Italia più soldi che agli altri, ha chiuso un occhio su un debito monstre, congelato i vincoli di bilancio e, via Bce, acquistato titoli del debito per 300 miliardi. Che pacchia, finora! Certo, la leader di un ex partito minoritario che conquista Palazzo Chigi è costretta a fare i conti con la realtà; e il documento base della politica economica per il 2023, il Def, porta la firma di Mario Draghi: dunque è più che probabile una certa continuità. Ma al condominio europeo, che mette i soldi anche per noi, e ai mercati cinici e concreti, le ipotesi non bastano.

 

Meloni, per esempio, promette rigore nei conti pubblici, ma le promesse fiscali sue e dei suoi alleati o, che so?, il no alla vendita dell’ex Alitalia vanno in direzione opposta; dice di difendere l’interesse nazionale, ma il fatto che le imprese italiane macinino metà del loro fatturato all’estero e siano legate a filo doppio a quelle tedesche, mal si concilia con certi slogan autarchici che ogni tanto affiorano; dialoga con Polonia e Ungheria (fino a non votare la reprimenda europea contro l’autocrate Orban), ma si accorgerà che i loro interessi sono molto lontani dai nostri e che se vorrà ottenere qualcosa - su energia, immigrazione, revisione dei vincoli di bilancio su cui si tratterà presto - Meloni avrà piuttosto bisogno di Macron e Scholz. Realpolitik.

 

Per una singolare coincidenza i destini d’Italia e d’Europa sono oggi nelle mani di due donne: a Roma Giorgia, a Bruxelles Ursula. Che poi - ah, forza dei paradossi! - sono politicamente molto legate: la presidente della Commissione europea Von der Leyen, come quella del Parlamento Roberta Metsola, sono infatti state elette da una maggioranza larga e insolita alla quale aderisce anche il “Partito dei conservatori e riformisti europei” di cui è presidente proprio Meloni, ma non quello dei filorussi di “Europa delle nazioni e delle libertà” dell’amica Le Pen e del socio di governo Salvini. E dunque, Giorgia: da che parte stare, con Ursula e Roberta, o con Marine, Viktor e Matteo?