Scusi, verrebbe a parlare nella nostra scuola? Volentieri, rispondo, ma di cosa? Della situazione politica attuale. Quando? Domattina! L’invito del collettivo studentesco del liceo “Virgilio” di Roma arriva – giustamente – informale e all’ultimo minuto. Nella mattinata stabilita per l’assemblea, a pochi metri dalla scuola, incontro per caso la scrittrice Lidia Ravera. Mi chiede dove sono diretto, mi dice: se serve vengo anche io; potrei spiegare perché si può continuare a essere femministe anche senza gioire per Giorgia Meloni premier. Sarà anche questo un tema, mi dico, e trovo un drappello di giovanissimi “pasionari” che mi aspettano sulla porta del liceo.
Non entriamo? No, la facciamo all’aperto. Ma siete sicuri? Sì, la preside aveva autorizzato l’assemblea – mi spiegano – ma per fare entrare un ospite comunicato troppo tardi mancano tempi e passaggi burocratici. E quindi? Quindi niente, la facciamo lo stesso, però fuori. Dove? In una piazzetta qua vicino, non si preoccupi. Non mi preoccupo. Li guardo un po’ perplesso e li seguo. Due di loro mi offrono un caffè. Al bancone del bar mi raccontano di essersi confrontati sull’ipotesi di una qualche forma di protesta simbolica, di una occupazione come quella del liceo “Manzoni” di Milano, per manifestare – questo il termine – la loro «indignazione» di fronte ai risultati elettorali. Ma è prematuro, aggiungono, e preferiamo, intanto, discutere. Si dispongono a semicerchio, occupando metà di una piccola piazza nel centro storico. Non passa quasi nessuno. I camerieri di un ristorante prestigioso apparecchiano con largo anticipo sull’orario del pranzo. Si fermano ad ascoltare. Almeno un paio di minuti a testa.
Faccio qualche considerazione, leggo una pagina dello scrittore francese – trentenne – Édouard Louis, in cui viene indicato il rischio che la politica sia ridotta a una questione estetica (e invece, per chi non è parte delle classi dominanti, dice Louis, è «una questione di vita o di morte»). Loro ascoltano, domandano, prendono il microfono per esporre e condividere amarezze e preoccupazioni. La gran parte di loro non ha votato per ragioni anagrafiche, ma ciò non impedisce di sentirsi coinvolti: perché non chiamiamo ultradestra quella di Meloni così come viene chiamata nel resto del mondo? Perché il Pd non si è reso conto in tempo di avere sbagliato tutta la campagna elettorale? Perché è stato così inefficace, se non controproducente, il discorso sull’antifascismo? Perché chi sta male economicamente ha votato a destra (o il Movimento 5 Stelle) e la sinistra non è stata in grado di raccogliere quella domanda di rappresentanza? Perché i governi di centrosinistra hanno attuato riforme di destra? Quanto dobbiamo temere, in prospettiva, la messa in discussione di diritti civili che diamo per acquisiti? E avanti così per venti, venticinque minuti. Finché non arrivano i carabinieri.
Vedo che parlottano con alcuni studenti. Vogliono sapere chi abbia autorizzato l’assembramento. Chiedono di sciogliere all’istante l’assemblea. Chiedono anche i documenti. Un ragazzo risponde: non li ho. Lo invitano a seguirli. E con lui ne schedano altri quattro o cinque. A me uno dei militari dice: un conto sono le sue idee, con le quali non sono d’accordo, un conto è la legge. Va bene, rispondo, ma se questo fosse un flash mob? E aggiungo che non si tratta di una protesta, ma di un’assemblea fatta fuori dalla scuola. Mi piacerebbe dire che andrebbe considerato un segno importante di partecipazione politica, la smentita dell’eterno luogo comune sui giovani disinteressati, apatici. Quelli presenti tengono il punto: in due o tre afferrano il microfono per invitare i compagni a non andarsene, a restare, a continuare la discussione. Non si alza nessuno.
I carabinieri restano schierati sul bordo della piazza, come le loro auto. La notizia delle forze dell’ordine all’assemblea en plein air comincia a circolare sui siti online; il collettivo, sui social, firma un testo per sottolineare che «da anni svolgiamo iniziative, assemblee e collettivi in questa piazza e mai le forze dell’ordine ci hanno intimato di andarcene». Twitta una giornalista spagnola, twitta Rula Jebreal. È abbastanza perché parta il gioco delle parti e dei pregiudizi. I cavillosi, i burocrati: ma l’assemblea era stata autorizzata? I paternalisti: ma questi ragazzi perché non vanno a studiare? I duri e puri: chiamate i genitori. I didascalici: devono parlare di fascismo nell’ora di storia, non in piazza. I sarcastici: poveri “sinistrelli” che sentono odore di regime ma non hanno voglia di fare un cazzo… I questurini: è puerile ergersi a difesa delle istituzioni democratiche violando le regole di convivenza democratica, bisognava chiedere alla questura, è bene insegnare ai ragazzi il rispetto delle regole e delle istituzioni. I nostalgici: ancora a parlare di antifascismo nel 2022?
C’è forse un filo di esagerazione in ciascuna di queste posizioni. Ma c’è stato un filo di esagerazione anche nell’intervento dei carabinieri. E i fatti restano i fatti: duecento ragazzi, in una piazzetta riparata e spopolata del centro storico di Roma, senza creare disagio, frastuono, si sono seduti a semicerchio per parlare del quadro politico post-elettorale. Quelli più realisti del re azzannano, temendo che ci si sia riuniti per gridare al regime. Ma se avessero avuto la bontà di ascoltare gli interventi avrebbero constatato che quelli più duri sono stati formulati contro la sinistra, contro le scelte e il linguaggio del Partito democratico. Quanto ai nobili e ipocriti (presumibilmente ignorantissimi) cultori dello studio – quelli che vedono ogni occasione di didattica alternativa come una perdita di tempo – mi pare siano intossicati da un qualunquismo inaridito e cinico. Sono, per l’appunto, gli stessi che additano le nuove generazioni come disimpegnate. E non riescono a cogliere l’oggettiva, simbolica forza di un raduno simile semplicemente perché non vogliono coglierla. In un Paese in cui il primo partito è quello degli astenuti, varrebbe la pena – così ho detto agli studenti – che iniziative simili si ripetessero in piazze e piazzette e strade più trafficate. Non per bloccarle, no. Ma perché funzionino da memento, da stimolo, da mostra itinerante di una possibilità che abbiamo data per persa. Il collettivismo. Il confronto aperto. Il vecchio – talvolta estenuante, più spesso formativo – dibattito.
Parlare di politica alla luce del sole! Che novità sarebbe? Fuori dai congressi, fuori dalle camarille, fuori dalle Leopolde, fuori anche dal Parlamento. Perché è giusto così. È sano così. “Discutiamo, discutiamo”, diceva il titolo di un corto di Marco Bellocchio del 1969. Lo si faceva troppo? Poi però abbiamo smesso. Lasciando che a parlare di politica fossero solo i ripetitivi ospiti dei talk show, da televisori ridotti ad acquari rumorosi nelle cucine del nostro disincanto. Quelle in cui a mamma o a papà, magari interpellati da una prole nata meno apatica, scappa la frase più blasfema e più suicida: «Bimbo, io non mi interesso di politica».