Esiste una “questione meridionale” all’interno del Pd in cerca di identità. Il Sud infatti è assente nell’analisi socio-economica e nella prassi politica di quel partito che dei grandi meridionalisti del recente passato avrebbe dovuto raccogliere l’eredità. Assenza ampiamente ricambiata dagli elettori. Un partito cannibalizzato dai Cinque Stelle, muto sulle grandi questioni sociali e ambientali, incerto persino sul disastro di Ischia, disarticolato nella struttura organizzativa e nei meccanismi decisionali.
«Sullo stato dei partiti a Napoli non mi pronuncio. Anche perché non ci sono, non saprei di che parlare», ha rimarcato il sindaco della capitale del Sud, Gaetano Manfredi. Giudizio netto, pronunciato alla presentazione del libro di Stefano Fassina “Il mestiere della sinistra”. Visto il contesto, è apparso chiaro all’uditorio a chi si stesse riferendo. Un partito inesistente in grado di sopravvivere però nei gangli decisionali delle amministrazioni del Mezzogiorno solo grazie alla leadership e al consenso raccolto intorno ad alcune personalità: lo stesso Manfredi a Napoli e Antonio Decaro a Bari, i governatori della Campania e della Puglia, Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, due dem irregolari, mal sopportati dalla nomenclatura romana. Eppure sono le uniche due regioni meridionali ancora governate dal centrosinistra. Pensare che nel 2015 tutti i presidenti del Sud erano targati Pd. Sono caduti uno dopo l’altro per un disfacimento glocal, misto di errori locali e di disattenzioni globali.
“È sparito il Sud” fu il titolo di una copertina dell’Espresso del settembre di sette anni fa, Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Da allora le lande meridionali si sono trasformate ancor più in terre incognite, dove si amplificano tutti i mali della nazione. L’ultimo rapporto Svimez, presentato alla Camera a fine novembre, prevede per il prossimo anno una crescita stentata del Pil, appena +0,5 per cento su scala nazionale. Ma scomponendo territorialmente il dato, si scopre che la ricchezza delle aree centrosettentrionali dovrebbe crescere dello 0,8 mentre il Mezzogiorno va in recessione con -0,4. Il Sud dunque come campo di battaglia per ridurre le diseguaglianze? Per maggiore giustizia sociale? Gli indizi non fanno ben sperare.
Nella corsa al Nazareno il Pd appare indirizzato verso un orizzonte sempre più nordista. Il tandem Stefano Bonaccini-Dario Nardella ripropone un partito territoriale tosco-emiliano, capace nell’amministrare bene ciò che hanno sempre amministrato. Anche se in Toscana pezzi strategici di territorio sono stati conquistati dalla destra, da Pisa a Siena. Forse, proprio per scrollarsi di dosso il marchio di fabbrica i due hanno scelto di cominciare da Bari la campagna congressuale.
Con Elly Schlein invece si profila il partito dell’alterità, delle libertà individuali, della critica al neoliberismo, un radicalismo giusto quanto vago. Emiliana è anche Paola De Micheli e marchigiano di Pesaro (quasi romagnolo, verrebbe da dire) Matteo Ricci. Tutti espressione di un’Italia bella, invidiabile, ma lontana dalle tensioni laceranti del Paese. È toccato a un altro emiliano-romagnolo, Matteo Lepore, sindaco di Bologna, ammettere che al partito democratico andrebbe aggiunta una parola-chiave, strategica per l’azione futura: lavoro. Un’ammissione di colpa per un partito arrivato terzo, dopo Fratelli d’Italia e M5S, nel voto operaio delle fabbriche del Nord. Estraneo sia al lavoro tradizionale sia alla parcellizzazione lavorativa della contemporaneità; distante da quella “precarietà persistente”, come la definisce Svimez, che affligge nelle regioni del Mezzogiorno un lavoratore su quattro. Insomma, la proposta congressuale dem al momento sembra una replica dell’esistente: un partito borghese, dei garantiti, lontano dalle periferie urbane e sociali. Senza Sud.