C’è una profonda differenza tra aggressore e aggredito. Che non va dimenticata anche quando si cerca di comprendere le ragioni di chi attacca

Non occorre mettersi l’elmetto sulla testa né usare un linguaggio guerresco per nutrire un sentimento di solidarietà con l’Ucraina, basta l’elementare empatia e uno sguardo sul mondo oltre gli angusti confini della Realpolitik. Ma procediamo con ordine.

 

A partire dalla questione di guerra e pace. E non per dire una cosa ovvia: tranne qualche fanatico, nessuno è per la guerra mentre invece la stragrande maggioranza delle donne (quasi tutte) e gli uomini (meno delle donne) è per la pace. La questione è come arrivare a una relativa pacificazione dei luoghi dove è in corso un conflitto armato, e anche come impedire il ricorso alle armi là dove la situazione è tesa.

 

Ecco, nel variegato mondo di coloro che - non per amore di Putin ma perché giustamente preoccupati per le sorti del pianeta all’epoca delle armi nucleari - evocano gli errori dell’Occidente, è spesso in voga uno schema dove la pace è la conseguenza di un ordine mondiale, a sua volta determinato dal rispetto dalle sfere d’influenza delle grandi potenze. Ci spieghiamo. Capita di leggere - più sui social media che sui giornali - citazioni ed elogi, da sinistra, di Henry Kissinger, l’ex segretario di Stato degli Usa, a sostegno delle tesi sulle legittime preoccupazioni del Cremlino. E c’è chi porta un esempio (non del tutto) ipotetico: se un’alleanza non controllata dagli americani del Nord si espandesse fino alle porte degli States, come reagirebbe Washington? La risposta è ovvia: Washington ha reagito con l’embargo contro Cuba. È giusto quell’embargo? Forse no. A rifletterci, si tratta di tesi del tutto legittime, a patto però di inserirle nel solco della grande tradizione di pensiero reazionario, e che ha fra i suoi padri personalità come conte Klemens Wenzel Lothar von Metternich, di cui Kissinger appunto è un devoto seguace. Ma è piuttosto triste pensare a un mondo dove contestare lo stato di cose esistenti sia considerato un’idea da guerrafondai e avventurieri. Quanto sopra non è una caricatura del pensiero altrui: per alcuni decenni, fin dalla fine della seconda guerra mondiale, una consistente fetta della sinistra mondiale - quella che faceva riferimento all’Unione Sovietica - del realismo politico, della stabilità dei blocchi ha fatto il suo vero credo: altro che utopia di un’umanità emancipata.

 

Certo, si obietterà - sempre da parte di chi non nutre alcuna simpatia per Putin - la resistenza può assumere forme non violente e non si deve rispondere al Male con un altro Male. E anche: la violenza deve essere espunta dal pensiero e dall’agire umano. Sarebbe sbagliato liquidare questo pensiero come roba da utopisti, anime belle, persone con le teste fra le nuvole. E basti citare la produzione filosofica di Günther Anders, pensatore tedesco di origini ebraiche, primo marito di Hannah Arendt che dopo Hiroshima rifletteva sull’inadeguatezza degli umani rispetto alla tecnica e sulla discrepanza fra la nostra immaginazione e le possibilità concrete della distruzione del mondo. Ed è doveroso ricordare Tolstoj e Gandhi e ovviamente, la riflessione femminista, sempre sulla resistenza appunto non armata, nella storia del Novecento.

 

Ora, senza entrare nei particolari e semplificando, né Tolstoj e forse neanche Gandhi in fin dei conti, pensavano alla non violenza come a una tattica vincente, ma invece si trattava di una scelta etica, per amore della verità nel caso di Gandhi risultata efficace. Resta un fatto concreto e dei fatti concreti, la prima moglie di Anders, Arendt appunto, consigliava di tener conto. Quel fatto è il seguente: gli ucraini hanno deciso di non arrendersi all’aggressore e di opporre una resistenza armata all’invasione russa, ordinata da Putin. È giusto consigliare loro di arrendersi? E se sì, seguiranno il nostro consiglio? O se vogliamo: le idee camminano sulle gambe degli umani. Gli umani ucraini non vogliono vivere sotto l’occupazione di un regime dispotico di Mosca. Anche perché hanno viva la memoria delle deportazioni e della carestia nei primi anni Trenta, che provocò oltre tre milioni di morti.

 

E così siamo arrivati alla questione, cruciale, delle vittime, legata a quella della complessità. Ecco, l’Europa del Centro e dell’Est, nella narrazione occidentale, spesso viene presentata come un’anomalia, una landa popolata da gente immatura per esercitare le virtù della democrazia, terra di pogrom, di odi atavici e via raccontando, per dire che ogni guaio e guerra nel nostro continente nasce naturalmente da quelle parti. Quell’anomalia presunta, non è altro che l’eredità del disfacimento degli imperi, quello russo, quello asburgico e quello ottomano, imperi le cui le città erano abitate da persone di varie lingue, diverse fedi e spesso dai sogni divergenti, in una incessante dialettica fra conflitto e convivenza.

 

La nascita degli Stati nazionali ha spesso coinciso con pulizia etnica e violenza, una violenza che mentre in Occidente si dispiegava nelle colonie, in quei Paesi diventava appunto guerra fratricida e pogrom. L’anomalia è questa. Però intanto, se è legittimo guardare Odessa o Leopoli dal punto di vista di Parigi o Roma, è altrettanto legittimo e forse più interessante osservare Parigi o Roma dal punto di vista di Odessa o Leopoli. Ma c’è di più. Nel nostro (umano) immaginario l’anomalia è una colpa - della vittima - e inoltre crea difficoltà perché ci costringe a fare i conti con la complessità: delle identità plurime e delle situazioni dove la memoria e l’oblio si sovrappongono, come in caso ucraino. Dalla paura dell’anomalia nasce a sua volta la tentazione di pensare: in fondo sono vicende incomprensibili per noi occidentali. E ciò che è incomprensibile porta all’indifferenza, all’equidistanza rafforzata dalla convinzione che la vittima è colpevole della deviazione dalla norma. E l’equidistanza non è altro che l’estrema forma di semplificazione.

 

È vero, c’è un lato anacronistico nella guerra per il controllo di territorio, all’epoca in cui il tempo (occidentale) tende ad abolire lo spazio. E c’è un aspetto sempre anacronistico nella retorica degli ucraini: tesa ad affermare l’idea di Stato nazione in un’Europa dove le frontiere, in pratica, non esistono più. Però, anche in questa discrasia dei tempi che ci fa paura, non dimentichiamoci che si tratta pur sempre di una dialettica fra aggressore e vittima.

 

L’aggressore è la Russia di Putin. Capire le sue ragioni può essere un esercizio utile. A patto di ascoltare quello che i protagonisti dicono. E l’uomo del Cremlino lo ha detto a chiare lettere, in un discorso di poche settimane fa: l’Ucraina è un’invenzione dei bolscevichi e di Lenin. Il suo ideologo Aleksandr Dugin ripete che il nemico è il materialismo occidentale. Si potrebbero aggiungere considerazioni sull’idea del tempo russo, per cui l’eroismo dei soldati sovietici - di tutte le nazionalità dell’Urss, ucraini compresi - che sconfissero il nazismo a costi difficilmente immaginabili da chi vive in Occidente, viene vissuto come se fosse il presente esclusivamente russo.

 

Ma è importante un’altra cosa. L’Ucraina è la vittima. La vittima non necessariamente è buona e pura e non sempre i suoi sogni corrispondono alle nostre utopie. Però, la vittima merita sempre solidarietà e va aiutata. Si chiama empatia, specie di fronte alle immagini delle città devastate e dei profughi davanti ai nostri occhi e in mezzo a noi. E se davvero crea problemi l’eccesso di nazionalismo a Kiev, il rimedio è semplice: lo ha indicato Mario Draghi, l’Ucraina nell’Unione europea.