Il premierato proposto da Giorgia Meloni è conseguenza di quanto avvenuto dagli anni Ottanta a oggi. I meccanismi della nostra Repubblica hanno spinto l'elettorato verso chi sa carpirne il consenso, allontanandolo dalle istituzioni. Perciò l'idea di affidarsi a una figura forte si riaffaccia sempre

Capita, a chi è nato in democrazia, di chiedersi come mai i tedeschi amassero Hitler e gli italiani amassero Mussolini. La domanda si è fatta più inquietante quando ci siamo chiesti perché Trump è diventato presidente degli Stati Uniti (e rischia di diventarci ancora, secondo i sondaggi del New York Times che lo vedono in testa a Biden in Arizona, Georgia, Michigan, Nevada e Pennsylvania). Dentro di noi, però, conosciamo la risposta: perché erano e sono gli uomini – o la donna, nel nostro caso – che la cittadinanza voleva.

 

Basterebbe aver letto con attenzione Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, specie quel passaggio esemplare che dice: «Imbottiscili di “fatti” al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d'essere “veramente bene informati”. Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi». Suppongo che Bradbury, scrivendo queste parole nel lontano 1953, pensasse al passato, ma che fosse anche un po’ preveggente come spesso avviene agli scrittori di fantascienza. Naturalmente era lontano dal prefigurare il premierato proposto dal governo Meloni, come lo eravamo anche noi fino a qualche giorno fa. Ma non dovremmo stupirci troppo.

 

L’elezione diretta di presidente del Consiglio e Parlamento non è un colpo di mano (e neanche di Stato, fin qui), ma la conseguenza logica di quanto è avvenuto dalla fine degli anni Ottanta a oggi. Invece di stupirci, ci saremmo dovuti accorgere di vivere in una democrazia liberista dove i partiti non sono altro che una macchina elettorale al servizio di un leader che si rivolge direttamente al popolo, che il vero potere è quello dei media vecchi, nuovi e nuovissimi che trasmettono messaggi semplificati ed emotivi, che quei cittadini che secondo il neoliberismo dovrebbero essere performanti e competitivi vengono semmai trattati come «narcisisti, guidati dal desiderio e dalle pulsioni identitarie: indifesi e al tempo stesso convinti di essere vincenti, passivi ma illusi di essere attivi. E soprattutto isolati, privi di legame sociale, privi di fiducia sia reciproca sia verso le istituzioni: se la liberaldemocrazia creava folle solitarie, la democrazia liberista crea folle di solitudini individuali» (le virgolette non sono di Bradbury: solo un po’ di pazienza).

 

Non siamo diventati ignoranti e dunque manovrabili, non è questo il punto: certo, comprendiamo meno bene di un tempo un articolo, un libro, un discorso e, certo, chi vuole il nostro consenso sceglie parole semplici e d’impatto per non correre il rischio di sentirsi rimproverare come ha fatto Lilli Gruber con Elly Schlein. Il punto è che siamo soli, e come in una bella poesia di Adrienne Rich, i grandi uccelli neri della storia ci stanno prendendo a beccate mentre eravamo intenti a cambiare il “noi” in “io”. Probabilmente è per questo che nell’ultimo rapporto dell’Istituto internazionale per la democrazia e l’assistenza elettorale i processi democratici calano ovunque per il sesto anno consecutivo.

 

Dunque, la cosa preziosa di oggi è un piccolo libro, Democrazia: ultimo atto?, scritto per Einaudi da Carlo Galli, autore delle frasi tra virgolette e di una risposta lucida e amara: no, non vogliamo la democrazia. Grazie al cielo, però, nel titolo c’è un punto interrogativo.