Il "divoramento", cioè l'internamento e l'uccisione nei campi di concentramento, dei popoli romanì è un fatto storico sottoposto ad autentico memoricidio. Il destino di un numero di persone tra 200 mila e un milione in Europa è avvolto dall'oscurità

Secondo alcune fonti, Tadeusz Joachimowski, ebreo polacco sopravvissuto alla prigionia nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, riuscì a seppellire un archivio dei rom e sinti internati nel Zigeunerlager, l’apposito settore per gli «asociali», ovvero coloro che venivano socialmente riconosciuti come romanì, ritenuti intrinsecamente criminali e su cui venivano condotti i principali esperimenti di eugenetica per separare il gene «ariano» da quello «criminale». Grazie a Tadeusz e ad altri due prigionieri, sappiamo i nomi dei 20 mila rom e sinti uccisi nei forni crematori, quando si decise di fare spazio per l’arrivo delle prigioniere politiche.

 

Soprattutto, conosciamo i nomi di coloro che la notte del 16 maggio 1944 appresero, dall’archivista Tadeusz, la notizia del trasferimento e si ribellarono, ispirando migliaia di prigionieri dentro Auschwitz-Birkenau a fare lo stesso. La loro rivolta contro le Ss, nata da barricate e guerriglia, armata di pettini e forchette, durò quasi tre mesi. Fu soppressa con la fame, le epidemie e, infine, i forni. Per i romanì internati nei campi non c’erano registri di morte e, anche per questo motivo, i numeri dello sterminio in Europa variano dai 200 mila al milione.

 

In Italia, il memoricidio nei confronti del cosiddetto “Porrajmos”, del “divoramento” dei popoli romanì, cioè rom, sinti, manush e kalé, durante il nazifascismo, persiste. In Italia, dove il primo campo di prigionia per i romanì anticipa le leggi razziali di dodici anni, il memoricidio sembra tramandarsi di decennio in decennio, affinché, sulla loro pelle, si possa sempre fare campagna elettorale. Tra i campi di prigionia ad hoc ricordiamo quello di Agnone, di Berra, di Bolzano e di Prignano sulla Secchia, in provincia di Modena, a cui sopravvissero i “Leoni di Breda Solini”. I Leoni erano un distaccamento partigiano di sinti circensi e giostrai attivi al confine tra l’Emilia e la Lombardia, specializzato nel disarmo e nel sabotaggio. Si conquistarono il soprannome di “Leoni” dopo aver disarmato una pattuglia dell’avanguardia tedesca. Sono ricordati perché rifuggivano, il più possibile, la violenza e perché alternavano mattinate di spettacoli nelle piazze con nottate di azioni sabotatrici.

 

Il memoricidio del divoramento dei popoli romanì nei campi di prigionia è superato forse solo dall’oblio intorno al loro ruolo nella Resistenza: non ricevettero mai compensazioni né riconoscimenti. Tra i partigiani romanì fa eccezione Amilcare “Taro” Debar, partigiano nella 48° Brigata Garibaldi “Dante Di Nanni”, attiva nella liberazione di Torino. Finita la guerra di Liberazione, a Taro non fu riconosciuto il suo impegno durante la Resistenza finché Sandro Pertini non divenne presidente della Repubblica.

 

Nel dopoguerra, né la Germania né l’Italia avviarono alcun procedimento per il riconoscimento formale dello sterminio etnico compiuto nei confronti delle popolazioni romanì: in Germania figurano fra le «altre vittime». In Italia, la legge che ha istituito il Giorno della Memoria non fa alcun riferimento al Porrajmos. Dal 2015, la comunità internazionale ha istituito una giornata per ricordare il divoramento: il 2 agosto, anniversario della repressione della rivolta di Auschwitz. Canta così l’inno rom “Gelem, gelem”: «Sono andato, sono andato per lunghe strade, ho incontrato rom felici […] una volta avevo una grande famiglia, la legione nera li ha uccisi».