Le riforme richieste per l'erogazione dei fondi europei richiedono tempi lunghi. Mentre la politica italiana non ha alcuna idea di come si faccia programmazione. Dovremmo valutare la possibilità di chiedere meno soldi

La lettura del recente libro di Tito Boeri e Roberto Perotti, “Pnrr. La Grande Abbuffata”, ha suscitato in me grande interesse riguardo alla preziosissima disamina delle varie implicazioni del Pnrr, che coinvolgono i governi Conte II, Draghi e Meloni. Il provvedimento dell’Europa, nato per superare i gravi disagi causati dal Covid, così com’è congegnato, da un lato comporta conseguenze abissali per un Paese come il nostro, che è già difficile capire come faccia a stare in piedi, dall’altro pone forti interrogativi sul modo in cui la Commissione europea ha strutturato una misura che coinvolge 27 Paesi, molto diversi fra loro nell’essere come Stati.

 

Per la Commissione era essenziale dare la sensazione di essere presenti tempestivamente. Il come non contava. Le condizioni a cui è subordinata la concessione dei prestiti e delle sovvenzioni da parte dell’Ue hanno fatto da detonatore alla «crisi di sistema» dell’Italia. Una crisi che dura da moltissimi anni. Un Paese che fatica a confrontarsi con sé stesso.

 

La prima questione che balza agli occhi è la stretta correlazione tra l’erogazione di 192 miliardi di euro, di cui 68 miliardi di contributi e 132 di prestiti, e una pluralità di riforme da realizzare in meno di cinque anni. Riforme che dovrebbero cambiare anche la vita degli italiani. Si tratta di questioni annose, come quelle della pubblica amministrazione, della giustizia, dell’evasione fiscale, della concorrenza, dell’istruzione, della socialità, che ci portiamo dietro da settant’anni e che nell’arco di un quinquennio dovremmo portare a nuovo regime. La «riforma epocale» della nostra organizzazione statuale, che coinvolge, strutture, modelli operativi, elevazione professionale dei cittadini, non si fa in un quinquennio. La verità non si può dire, ne va del prestigio nel consesso europeo. Guai a dirlo.

 

L’altra questione concerne il vincolo di spendere i 192 miliardi di sovvenzioni in poco più di cinque anni, quando non siamo stati capaci di spendere i 43 miliardi delle misure strutturali in sette anni. La programmazione non è mai stata patrimonio della dirigenza pubblica. È un termine che richiama la pianificazione di stampo statalista e, in quanto tale, estraneo agli strumenti dell’economia di mercato. Programmare «il reale e il possibile», che sarebbe la condizione minima su cui uno Stato dovrebbe ragionare, non fa parte del vocabolario della nostra classe politica. Guai a subordinare l’attuazione di un provvedimento che mobilita ingenti risorse finanziarie alla sussistenza di un piano attuativo che ne evidenzi punti di forza e di debolezza. È bene mostrare che ci siamo. Poi si vedrà. Superbonus docet.

 

Oggi il ministro Fitto si dibatte per ottenere dalla Commissione europea modifiche al piano di attuazione del Pnrr per sostituire interventi non realizzabili entro il 2025. Getta la volontà oltre l’ostacolo. Si appella al fatto, come sempre hanno fatto i nostri governanti, che, presi i soldi, in qualche modo si farà. Basterebbe avere il coraggio di dire che ne prendiamo meno, come il regolamento attuativo del Pnrr prevede. Guai a noi, sarebbe lesa maestà. Il prestigio nel consesso europeo andrebbe a farsi benedire. Dire come stanno le cose non giova. È sufficiente che il cappello tenga.