Quando entri nella comunità Kayros di Vimodrone, alzi gli occhi e leggi un cartello con la scritta: «Non esistono ragazzi cattivi». Che tu spacci, che tu uccida, che tu rubi, qui non sei percepito come fossi irrecuperabile. Non ci sono sbarre alle finestre o cancelli, perché la libertà soverchia il pregiudizio ed è il metodo educativo su cui si fonda ogni ingresso.
Don Claudio Burgio è il cappellano del carcere Beccaria di Milano e il fondatore della comunità che accoglie in questo momento cinquanta minori provenienti dal carcere e da difficili condizioni familiari. Con lui i giovani si sentono al sicuro, più che in qualsiasi altro contesto che ha sabotato il loro diritto alla felicità. Perché qui sentono di appartenere a una comunità.
«Bisognerebbe entrare nelle loro case e capire che spesso non hanno alternative culturali. In questi contesti è difficile aderire a un modello di vita differente». Questi adolescenti hanno a che fare con un mondo fuori asse: una mancanza, un abbandono, una storia di difficoltà, di sacrifici, di rabbia. Il reato è, nella maggior parte dei casi, la loro palude.
Un ragazzo di origini marocchine ha iniziato a rubare a dodici anni ed è scappato da venticinque comunità, prima di arrivare alla Kayros. Sogna di diventare un operatore cinematografico o un montatore dal giorno in cui ha visto una telecamera accesa. E si è acceso anche lui. Da qui non sta scappando, gli altri ragazzi sono diventati protettivi, fratelli maggiori. Se gli chiedi perché non va via, alza gli occhi e, come fosse la cosa più naturale del mondo, risponde: «Perché qui sto bene».
«Quando uno viene dal basso ha più fame», dicono i ragazzi. A volte quella fame porta alla rovina, ma prima o poi può portare a tirare fuori delle capacità insospettabili. Kayros è la risposta a una richiesta di aiuto, che non sempre viene esplicitata, un’opportunità senza protervia che, attraverso lo sport, il teatro, la musica, permette al ragazzo di specchiarsi in una versione migliore di sé stesso. Scoprendo risorse inimmaginabili.
Il carcere dovrebbe essere un aiuto, ma è concepito come un castigo, una vendetta che non educa, ed è difficile che ti cambi. Perché ti incattivisce. «Una bara che ti prepara a un’altra sepoltura», insomma. Il recupero, per don Claudio, è più importante della pena. Bisogna smettere di pensare che sbattere il mostro in cella basti per farci sentire al sicuro o migliori, perché animati dall’ansia di giustizialismo.
Un giorno don Claudio ha avuto un dialogo con un ragazzo in carcere.
«Don, è inutile che ti sbatti per me, tanto sono un tossico. Ti ringrazio, ma lo so che, quando uscirò, niente cambierà». «Non mi dire che sei un tossico. Sei un ragazzo che ha usato sostanze». E lui: «Vabbè, che differenza fa?».
Don Claudio gli ha spiegato che, invece, cambia tutto. Cambia il mondo. Perché, se un ragazzo pensa di essere il problema che ha, resterà chiuso, senza le infinite possibilità di bellezza che la vita può offrire.
«Vabbè, non mi hai convinto». Gli ha risposto quel ragazzo. Dopo due settimane, però, qualcuno l’ha chiamato dal fondo della cella e gli ha urlato: «Oh, sfigato!». Lui si è girato e, davanti a don Claudio, ha risposto: «Non sono sfigato. Sono un ragazzo che ha sfiga». Anche una storia sbagliata merita salvezza.