La storia del cinghiale Pablo, salvato dai volontari, è una lezione sulla convivenza tra uomini e animali

Le attività umane finiscono per sconvolgere gli equilibri della natura. E, quindi, della fauna selvatica. A danno della pacifica coesistenza delle specie. Per questo servono soluzioni lungimiranti

Mentre scrivo sono al rifugio per animali Agripunk, nella Val d’Ambra, con una decina di persone. Assieme a noi ci sono Desirée Manzato e David Panchetti che nel 2014 hanno contribuito alla chiusura di un allevamento intensivo di tacchine — se ne allevavano 30 mila ogni tre mesi — e hanno preso in affitto questo posto riuscendo a trasformarlo in rifugio. Le tacchine vivevano, come sempre negli allevamenti, intensivi o non, in condizioni di sfruttamento, torture e abusi. Da allora Desirée e David hanno fondato l’onlus che accoglie animali non-umani provenienti da maltrattamenti, cessioni, fughe, abbandoni ed evasioni da qualsiasi tipo di allevamento.

 

Tra le storie di liberazione animale che si ascoltano camminando tra questi campi liberi, quella di Pablo è emblematica perché aiuta a tracciare la storia di un cinghiale e, soprattutto, comprendere l’arrivo di queste specie nelle metropoli.

 

Nel 2014 Desirée e David vengono a conoscenza della presenza di un cinghialino, probabilmente orfano per mano di cacciatori, sfamato da diverse persone di San Leolino, a meno di una decina di chilometri dal rifugio. Quando il cinghiale viene segnalato alla polizia provinciale, questa, come spesso accade, gli spara un colpo in testa. Gli sfondano il setto nasale, ma non riescono a catturarlo.

 

Il cinghiale, ormai ferito, si rifugia nel paesino in cerca di accudimento e cibo. Quando inizia a crescere, alcune persone del posto chiamano di nuovo la polizia provinciale, che lo cattura. Successivamente Agripunk viene contattata e, seppur con intenzionali difficoltà burocratiche da parte degli agenti, Pablo — così l’hanno chiamato — viene accolto nel rifugio nell’ottobre 2015 ricevendo da quel giorno cure specifiche, affetto e soprattutto protezione.

 

Per capire la storia di Pablo e l’arrivo del cinghiale in una metropoli, dobbiamo comprendere il ruolo dei cacciatori nello sconvolgimento degli equilibri della fauna selvatica e soprattutto del ripopolamento delle aree dedite alla caccia.

 

Dobbiamo comprendere come, nonostante sia una pratica illegale, quando i cacciatori sparano alla madre di un branco di cinghiali, questi perdono la struttura familiare, vengono destabilizzati e sono biologicamente spinti a riprodursi di più. Dobbiamo osservare con oggettività che la caccia, negli anni, non ha mai risolto il “problema” dei cinghiali né in città né nelle aree coltivate, perché ne è di fatto la causa. Bisogna considerare le pratiche di foraggiamento e ripopolamenti venatori, la ridicolezza machista del recente emendamento sulla caccia.

 

È necessario applicare soluzioni lungimiranti e non cruente come la sterilizzazione temporanea. Dobbiamo finanziare e supportare i rifugi che di fatto sopperiscono a una mancanza nella cura a lungo termine di animali spesso torturati e disabilizzati dall’industria agroalimentare.

 

Dobbiamo chiederci se esista, nella nostra società, un luogo di libertà: senza i nostri dogmi e dettami, una libertà della natura che appartiene solo a sé stessa e di cui noi siamo, come scriveva Élisée Reclus, una parte che ha preso coscienza di sé. Dobbiamo, in ultima istanza, chiederci perché ci arroghiamo il privilegio di specie di decidere chi deve morire invece di trovare vie di coesistenza con le altre specie e immaginarci più morali di così.

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