Il congresso del Pd appare autoreferenziale. Eppure sarebbe necessario discutere come combattere le disuguaglianze senza ricorrere soltanto alla spesa pubblica

È in corso uno dei più estenuanti congressi di un partito del riformismo italiano ed europeo, teoricamente ancorato al pensiero di centro-sinistra eppure, al di fuori di consumati gruppi dirigenti, non si percepisce alcun coinvolgimento della corrispondente e delusa platea elettorale. Di fatto viene sancita la distanza con i vari pezzi della società e le proprie forme di rappresentanza, ma soprattutto permane la subcultura dell’autoreferenzialità. Eppure, siamo immersi in una crisi sociale, economica ed istituzionale e schiacciati culturalmente da contraddizioni apparentemente insanabili, senza che a nessun dirigente candidato venga voglia di spendersi indicando quale filo della matassa tirare per andare oltre la palude della superficialità.

 

Per esemplificare assumiamo due tracce frequenti nella propaganda e proviamo a dissodare il terreno: la redistribuzione della ricchezza e la lotta alle diseguaglianze. È lecito domandarsi se può esistere una sinistra che inusitatamente si pone solo il termine della redistribuzione della ricchezza, ancorché in favore delle fasce sociali più deboli e fragili della società, prima di essersi posto quello della sua produzione? Il tema è sistematicamente agitato da un gruppo dirigente del Pd frastornato dalle disconnessioni con la società e forse compromesso nel suo divenire (addirittura nella sua esistenza) dalle sconfitte elettorali.

 

Ogni possibile inversione di rotta rispetto alla distribuzione attuale (una sorta di Robin Hood al contrario) non può più passare per la via del tradizionale incremento del debito pubblico, peraltro molto cresciuto in questi ultimi anni e non solo per la pandemia, ciò nonostante, senza che si sia generata alcuna correzione in quel senso. Prima ancora si dovrebbe fornire una chiara indicazione di un nuovo sviluppo economico, capace di produrre adeguata ricchezza, tale da sostenere una reale politica salariale, la cui sottovalutazione è una causa certa dell’attuale disastro sociale e della sconfitta politica. Ciò ovviamente non può essere risolto dal “reddito minimo” tantomeno dal “cuneo fiscale”, cioè dalla rinuncia a parte di entrate pubbliche.

 

Analizzando banalmente le voci di un bilancio aziendale, notiamo che tutte le componenti dei ricavi e della spesa sono aumentate, salvo il costo del lavoro. È facile immaginare che il sistema si vada predisponendo ad una possibile stagione di conflitti mossi, da un lato, dall’esigenza primaria di riallineare alla modernità salari e stipendi, dall’altro, da imprese largamente non più in grado di garantire adeguati profitti, legittimamente attesi dal capitale investito. Servirebbe alla sinistra la piena consapevolezza che se la ricchezza non viene prodotta in quantità adeguata, non è possibile alcuna distribuzione e serve alla sinistra, contemporaneamente, l’altra consapevolezza che la redistribuzione non può avvenire solo dallo Stato, perché il suo sistema fiscale è iniquo e pure esso stesso fonte del disastro sociale, delle sue ingiustizie e dell’impoverimento di alcune fasce sociali.

 

Siamo arrivati al dunque che la remunerazione del lavoro dipendente, gran parte della spina dorsale dell’economia e del gettito fiscale, andrebbe ripensata in favore dei lavoratori: d’altronde se un dipendente produce oggi la stessa borsa da donna in pelle che sul mercato va a 10/15mila euro e riscuote esattamente lo stesso salario o stipendio di quando valeva 3.500 euro - quindi pure esso con la sua manualità e il suo ingegno ha contribuito all’incremento di valore - sarà pure giusto che ne veda riconosciuta una parte.

 

Insomma, non basta più dire che serve un nuovo sviluppo compatibile, energeticamente, ecologicamente etc. etc. Deve essere anche socialmente compatibile ed economicamente capace di generare ricchezza e stabilità. E tutto questo viene prima della redistribuzione. Va da sé che fare ciò è arduo, perché costringe a mettere le mani dentro i gangli del sistema capitalistico, con tutte le sue interconnessioni globalistiche e parimenti a ridefinire qual è il ruolo di uno Stato, di un singolo Stato che non può solo sperare di rifugiarsi nel “più Europa”. Magari potrebbe accadere che la destra paranazionalista percepisca il da farsi, prima della sinistra. Parallelamente potremmo porci un secondo interrogativo. Combattere le diseguaglianze, mantra quotidiano, cosa significa? Quelle di partenza? Quelle di arrivo? E in che rapporto di coerenza sta con il “valore delle diversità”?

 

Per un partito di sinistra che ogni minuto si pronuncia per «affermare il valore delle diversità» non solo a proposito del tema immigrazione, ma più in generale come fatto culturale e, il minuto dopo «bisogna combattere le diseguaglianze» che stanno mettendo in crisi la tenuta sociale del Paese (Nazione, come dice il Presidente del Consiglio) bisogna riconoscere che si può correre il rischio di un certo grado di confusione, anche concettuale. Il tema potrebbe essere: quale grado di diseguaglianze è tollerabile in una società ordinata? È ovvio che oltre certi limiti esse irrompono negli equilibri sociali diventando detonatori pericolosi e tuttavia abbiamo impiegato venti anni, alla fine del secolo scorso, per metterci alle spalle quella “concezione egualitaria” che aveva segnato tutta la stagione delle grandi lotte.

 

In quella storia, per molti versi largamente condivisa da intere masse sociali, si nutrivano altrettante ingiustizie e mortificazioni giacché bravi o leggeri, impegnati o lassisti, sembrava giusto che tutti avessero lo stesso trattamento. Insomma, teorizzavamo che al posto del merito doveva essere valorizzata l’anzianità, in quanto esaltazione di esperienze e la fedeltà all’impegno comune, accresceva il rango sociale. Il modello non funzionava, esattamente come il suo opposto, non sembra funzionare oggi. Ma almeno all’epoca i Partiti se ne occupavano e la sinistra riusciva ad assumersi delle responsabilità e magari correggere delle storture. Che fosse questa la vera cultura di governo di cui andar fieri?