Il padrino di Cosa nostra è stato assicurato alla giustizia. Ma la società civile deve combattere le infiltrazioni mafiose, là dove la politica fallisce. E dove la speranza sono i giovani

Era domenica quel 19 luglio 1992 e io, rientrando in auto dal meraviglioso weekend in Cilento, ero incolonnato al casello autostradale. La strage di via d’Amelio avvenne alle 16.58 e passò pochissimo tempo per la diffusione capillare della notizia. La appresi dalla radio, che interruppe quella musica domenicale adatta a conciliare l’ozio e il rientro da giornate estive. Fu subito rabbia. E sgomento, perché non c’era stato nemmeno il tempo di capire cosa fosse accaduto due mesi prima a Giovanni Falcone.

Ero appena laureato e, come per tanti giovani di allora, questi episodi criminali sono stati determinanti per scegliere da che parte stare per tutto il resto della vita.

 

L’anno dopo Matteo Messina Denaro, che era stato tra i mandanti di quei maledetti delitti contro lo Stato, si dava alla latitanza e solo due settimane fa (a distanza cioè di trent’anni) è stato arrestato dai carabinieri del Ros.

 

Spetterà agli inquirenti ricostruire i lunghissimi anni di latitanza, gli spostamenti, le connivenze, i rapporti con quanti hanno reso possibile tutto ciò. E sarà, ancora una volta, una gioia vedere che assicurati alla giustizia saranno quanti hanno consentito che u siccu potesse girare liberamente nei luoghi della sua giovinezza durante la quale ha germogliato, nella sua anima malata, il seme della criminalità.

A noi interessa tutto il resto, affinché ognuno di noi sia chiamato a fare la sua parte. Noi siamo la società civile che non può più assistere in silenzio alla pervasività delle infiltrazioni criminali, le quali, sempre più frequentemente, occupano lo spazio che prima era della Politica. Perché purtroppo sempre più concreta è quella compenetrazione tra la criminalità e il tessuto sociale, là dove l’assenza dello Stato genera ideali di appartenenza a sodalizi criminali che fanno intravedere vana speranza e incerto futuro.

 

Nel piccolo centro abitato dal boss nessuno ha visto e sentito e forse nessuno ha avuto il coraggio di vedere e di sentire. Ora lì, come in tanti luoghi della Sicilia e non solo, la gente è scesa in piazza come in un giorno di festa ed è stato bello vedere tanti striscioni tra le mani di giovanissimi studenti. Diceva Giovanni Falcone che la conoscenza del fenomeno mafioso deve essere alla base della coscienza civile delle nuove generazioni. Così ho visto i giovani anche negli occhi impauriti ma felici dei carabinieri che stringevano le braccia dell’ultimo latitante stragista. Avevano le spalle dritte e fiere come vele al vento della Legalità.

 

«Te l’ho già detto. Sono Matteo Messina Denaro», disse il boss con voce fioca e dimessa, mentre abbassava lo sguardo non potendo incrociare gli occhi verdi del carabiniere che lo aveva fermato.

 

«Sono lo Stato», gli rispose lui: «Quello Stato che a volte tarda a venire, ma che c’è e ci sarà sempre contro chi ha provato a minare la Democrazia, a volte piegandole le gambe dal dolore per quegli Uomini e quelle Donne che hanno perso la vita». «Siamo lo Stato», continuò: «Io con la mia divisa e il mio orgoglio quotidiano, i miei figli che studiano per diventare uomini onesti, i ragazzi che credono nella Bellezza della Libertà».

 

Tacque. Gli misero la mano sulla testa per farlo sedere nel blindato che lo porterà ancora una volta in carcere. Sì, ancora una volta! Perché è per tutta la vita in carcere chi fugge dai suoi inseguitori, chi vive nascondendosi, chi ruba agli altri la Libertà.

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