Le nuove tecnologie hanno un grande potenziale ma presentano anche grossi rischi. Per questo prima di arrivare a manifestazioni neoluddiste serve creare delle norme

L’intelligenza artificiale rivoluzionerà le democrazie. Per questo serve mettere delle regole

Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare», scriveva Luigi Einaudi nelle sue famose Prediche inutili (1959). Un principio che nella nostra postmodernità è stato convertito nel «conoscere per prevedere» dell’odierna economia della conoscenza che, a tale scopo, accumula senza sosta dati da processare.

 

Nella società industriale la pianificazione venne introdotta per cercare di ridurre progressivamente la probabilità degli imprevisti. E la società dell’informazione ha dato sempre maggiore slancio alle finalità di previsione, rispondendo a un’esigenza strutturale dei sistemi produttivi, come pure a un bisogno profondo della natura umana. E quanto più le società e i sistemi sono complessi – ovvero, come ha evidenziato Ulrich Beck, «società del rischio» – tanto più cresce l’ansia da imprevedibilità e, quindi, il desiderio di prevedere. Un anelito eterno che vede oggi al posto degli antichi aruspici – con percentuali di successo incomparabilmente superiori – gli algoritmi predittivi. Ed è precisamente di essi che si nutrono l’intelligenza artificiale e il machine learning (che è un sottoinsieme della prima), il cui obiettivo a ben vedere non è tanto il comprendere – ecco perché, nella fattispecie, alcuni studiosi (come la sociologa Elena Esposito) mettono in dubbio la stessa espressione di intelligenza, preferendo quella di «comunicazione artificiale» –, ma il prevedere. A questo servono, giustappunto, i big data.

 

Gli algoritmi non individuano relazioni causali, ma ricercano correlazioni; e, dunque, dal momento che tendono sostanzialmente a delineare e “scoprire” le strutture esistenti dei processi e dei fenomeni, non riescono a ridurre veramente l’incertezza che circonda il futuro. E, infatti, questo è – o piuttosto dovrebbe essere, come racconta quella delusione che si traduce nell’incessante avanzata dell’astensionismo – il compito della politica, e non quello di assegnare ad agenti autonomi che prescindono dal controllo umano un potere decisionale sulla vita collettiva. L’impatto dell’Ai (Artificial Intelligence) sarà quello, a ogni livello, di una nuova dirompente rivoluzione (post)industriale che produrrà ulteriori metamorfosi sociali. Ecco perché l’Ai va sottoposta a una serie di regolamentazioni, a differenza di quanto avvenuto nel caso delle piattaforme (le quali, comunque, possiedono una funzione eminentemente commercial-pubblicitaria, e vengono largamente utilizzate in chiave ludica).

 

Le implicazioni dell’intelligenza artificiale, invece – ancora più massicciamente di quanto si sia visto con i social network –, investono (e invadono) il campo politico. L’Ai risulta già ampiamente in grado di generare video deep-fake sempre più realistici e chatbot simulanti alcune argomentazioni del discorso pubblico tra umani, offrendo ad attori che perseguano fini di destabilizzazione delle “armi” impressionanti, inimmaginabili in precedenza.

 

E, allora, la sfida consiste nel ritorno a una forma di «politica pedagogica»: vale a dire, la “spiegabilità” e la trasparenza (almeno parziale) di quegli algoritmi che influiscono sulla vita pubblica, così da rendere l’impiego dell’Ai ancora più proficuo per l’intera collettività. Altrimenti il rischio ulteriore è quello di ritrovarci presto al cospetto di manifestazioni di neoluddismo dalle conseguenze (appunto...) imprevedibili.

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