Resistenti
In Friuli Venezia Giulia la militarizzazione è una ferita aperta
Sul letto di ciottoli sotto cui scorre il fiume Cellina, giacciono inerti circa 250 tonnellate di amianto
Sono a Ventotene e, a strapiombo sulle onde irte, c’è un sentiero minato da lumache. È buio pesto e cammino sulle punte delle scarpe da trekking sfondate, mi rannicchio per non confonderle con i sassi. Le sposto e altero il loro cammino: non voglio che muoiano. La mia famiglia, otto di loro, mi seguono cauti, incastrandosi nelle mie orme nel fango, quasi accovacciati e poco convinti, ma troppo spaesati per poter alterare il passo.
Le lumache sono centinaia, alcune con la chiocciola, altre senza, sono così tante e il sentiero è solo di qualche metro. È normale per me scrivere: c’è un sentiero minato di lumache, pensare alle mine, prima che alle creature. Ho la testa infettata dai racconti di Rumo, dalle sue parole sulla militarizzazione in Friuli Venezia Giulia: «Qui non cresce un filo d’erba senza che si sappia». È un artista friulano che non ho mai conosciuto, ma con cui ieri ho parlato al telefono per qualche ora, in ascolto sulla militarizzazione nei suoi territori, di cui sapevo poco e niente.
Mentre parliamo mi manda fonti e foto, rimango incantata per molti minuti a guardare steppe e prati, prima di allora inesistenti nella mia immaginazione. Scorro luoghi incantati e mi commuove la limitatezza del mio mondo, pensare poi per caso all’immanenza di alcuni pezzi di terra, scoprirne i moti e le regole, ascoltare Rumo usare un linguaggio che non conosco: specifico e dialettale.
Mentre parla esploro con il satellite, mi lancio a strapiombo in una lingua forcuta di terra, bagnata dal Cellina e dal Meduna. I due fiumi, quasi sotterranei, incastrano una steppa desolata, con l’erba secca intervallata da centinaia di ettari di ciottoli lisci e bianchi, capace di trasformarsi, in primavera, in una savana traboccante di vita e punteggiata di orchidee. I Magredi, in friulano «le terre povere d’acqua», si sviluppano sui terreni ghiaiosi ai piedi delle montagne fino alla linea delle risorgive. I locali, possono passeggiare per quelle lande solo in alcuni giorni, quando non ci sono le esercitazioni militari. Decenni di occupazione militare della zona hanno sviato l’agricoltura intensiva dai Magredi che altrove ne ha eroso i confini, ma la presenza di carri armati e lanci aviotrasportati ha fatto sì che le praterie siano oggi disseminate di enormi buche, matasse di filo spinato, relitti di torrette d’avvistamento, proiettili di piombo e tracce di cingoli.
Fino al 2003, venivano usati missili anticarro contenti torio radioattivo, di cui, ancora nel 2014, si trovava traccia su alcune carcasse di carri armati usati come bersagli. Sul letto di ciottoli sotto cui scorre il fiume Cellina, coperti da teli e segnalati da cartelli di pericolo, per centinaia di metri, giacciono inerti circa 250 tonnellate di amianto.
I Magredi non sono l’unica ferita aperta del Friuli militarizzato: una sorte simile tocca ai prati stabili di montagna del vicino poligono Cao-Malnisio, contro cui si batte un comitato locale. A trent’anni dalla fine della Guerra Fredda, la regione paga ancora la sua posizione di confine. Élisée Reclus, eccelso geografo, ma, prima di tutto, anarchico, scriveva: «Se una frana sbarra un fiume, le acque a poco a poco si ammassano a monte dell'ostacolo, un lago si forma per una lenta evoluzione, poi all'improvviso si produrrà un'infiltrazione nella diga e la caduta di un sasso determinerà il cataclisma: la diga sarà spazzata via violentemente e il lago svuotato ritornerà fiume. Così si verificherà una piccola rivoluzione terrestre».