Non si possono lasciare soli i genitori di bambini con disabilità

Sono molto poche le persone disposte ad adottare questi piccoli. Per le difficoltà, per la paura del “dopo di noi”. Ma la colpa è di una società che non ha visione né progetti di vera inclusione

Luca Trapanese è il padre single di Alba, una bambina con sindrome di Down. È stata partorita cinque anni fa dalla mamma in ospedale ed era pronta per essere adottata dalle cosiddette coppie tradizionali, ma nessuno ha accolto, tranne Luca, l’abbinamento.

 

In questi giorni tutti parlano del piccolo Enea, il neonato lasciato a Pasqua nella Culla per la vita della clinica Mangiagalli e delle numerose richieste che sono arrivate per adottarlo. La storia di Luca è nota, perché lui è molto presente sui social e la sua attività di sensibilizzazione è costante, ma ci permette di allargare la nostra riflessione a una realtà parallela a quella delle adozioni dei bambini sani e più silenziosa: quella dei figli disabili che nessuno – o quasi – vuole o può adottare.

 

«I bambini disabili vengono abbandonati negli ospedali. Non dobbiamo colpevolizzare i genitori perché sono distrutti. Nella Casa di Matteo, la casa di accoglienza per bambini malati anche in stato terminale, posso assicurare che le coppie che ho conosciuto sono devastate dal dolore e disorientate dall’inesperienza». Devi essere pronto, sostenuto, informato e non è semplice, anche se la nostra società parla continuamente di inclusione. L’arrivo di un bambino disabile diventa una tragedia perché il genitore è solo e non sa da dove iniziare quel percorso.

 

Il problema non è solo di chi non li adotta, ma anche di chi partorisce un bambino con disabilità e se ne parla poco perché è l’ennesimo tabù. Per ottenere il riconoscimento dell’handicap di un bambino e dunque gli aiuti previsti dalla Legge 104, è necessario compiere alcuni passaggi, fra cui la visita presso una Commissione medico legale. «Se riconoscessero dal primo giorno l’invalidità vorrebbe dire già tanto, anche a livello psicologico. Perché poi ci saranno altre complicazioni, fra cui le terapie spesso lente e poco frequenti a cui hai accesso tramite servizio pubblico».

 

Non si può affidare alla sola speranza il futuro di queste famiglie: la speranza di una scuola accogliente, la speranza che i figli non vivano quella solitudine enorme perché non possono partecipare alle gite, frequentare i campi estivi, trovare un lavoro. Questa società discrimina perché non ha una visione, un progetto, non pensa al bambino disabile come a un bambino come gli altri: «Capace di altro anche se non uguale agli altri».

 

La paura più grande è la prospettiva del futuro, il «dopo di noi». «Un’altra delle domande che più logora è: adotto un bambino, ma quando sarò morto chi penserà a lui? Io ho programmato la mia vita con Alba, ma lavoro in questo settore e non posso essere preso come esempio perché ho esperienza su come affrontare questa vita. Ad Alba insegno l’autonomia e l’autodeterminazione: darle la forza per capire che ha delle potenzialità. Ma questo dipenderà non solo da lei, ma da chi incontrerà: se la vedranno solo come bambina handicappata il mio tempo sarà sprecato. La comunità deve essere educata a vedere Alba come una risorsa: potrà avere amici, un lavoro, un amore. Alba deve essere educata ad avere consapevolezza dei suoi limiti, ma deve avere gli strumenti e le possibilità di tutti».

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