FUORILUOGO
I fiori tolti alla lapide di Mussolini e la volontà di riscrivere la storia
A Como è stata avviata un’indagine per danneggiamento, dopo il gesto che voleva onorare i partigiani e cancellare l’omaggio alla targa del duce. Così l’azione penale si è trasformata in una barzelletta. Ma la bandiera dell’antifascismo non si deve ammainare
Quest’anno ricorre il settantacinquesimo anniversario della Costituzione e le celebrazioni del 25 aprile hanno assunto un sapore assai particolare, con la novità di una erede della storia del Movimento sociale italiano a capo del governo e addirittura con l’assunzione di una figura come Ignazio La Russa alla seconda carica dello Stato, quella di presidente del Senato.
Proprio La Russa è stato autore di una affermazione stravagante circa la Costituzione, che non citerebbe l’antifascismo come carattere fondante della Repubblica (trascurando la XII Disposizione finale che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista).
Per fortuna il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha tenuto a Cuneo il suo discorso più bello e appassionato con la citazione di Piero Calamandrei, autore della poesia rivolta al camerata Kesselring, comandante delle forze di occupazione naziste in Italia, con il monito finale: «Su queste strade se vorrai tornare/ai nostri posti ci ritroverai/morti e vivi collo stesso impegno/popolo serrato intorno al monumento/che si chiama/ora e sempre/RESISTENZA».
Incredibilmente ho scoperto che a Giulino di Mezzegra, il luogo della fucilazione di Benito Mussolini e dei gerarchi in fuga, vi è una lapide che ricorda il dittatore. Pare che ogni anno drappelli di reduci e nostalgici si rechino a commemorare il duce. Quest’anno hanno anche collocato dei fiori. La notte del 28 aprile, Cecco Bellosi ha pensato di onorare i partigiani della Cinquantaduesima Brigata Garibaldi – che fermarono il convoglio con i resti del regime – togliendo quei fiori. Di certo non ha voluto compiere una profanazione, ma solo cancellare l’omaggio a Mussolini, un insulto agli eroi partigiani. Quel giorno si era svolta come ogni anno una manifestazione dell’Anpi e la vicenda poteva chiudersi in un confronto tra memoria civile e spirito di rivincita.
Invece, la mattina dell’11 maggio Cecco Bellosi – fondatore della comunità “Il Gabbiano” in Valtellina, nel paese dove visse padre Camillo De Piaz, amico fraterno di David Turoldo (tutti e due protagonisti della Resistenza a Milano, nella Corsia dei Servi) – ha ricevuto la visita di un nutrito gruppo di carabinieri e ha subito una perquisizione meticolosa in qualità di indagato, non per la sottrazione dei fiori, ma per l’accusa di danneggiamento aggravato della lapide o targa che sia.
Il sostituto procuratore di Como, Simone Pizzotti, offre una prova di come il principio della obbligatorietà dell’azione penale possa trasformarsi in una barzelletta. Si potrebbe persino pensare che il carico di lavoro del tribunale e delle forze dell’ordine non sia particolarmente gravoso, se ci si può dedicare a fatti assolutamente irrilevanti.
D’altra parte, la cosa non può essere archiviata con superficialità colpevole. Negli anni scorsi si è parlato a sproposito di Seconda Repubblica, ora invece la volontà di riscrivere la storia da parte dei vinti è forte. Basta rileggere Piero Gobetti per capire che saranno tanti – in prima fila gli opinionisti che invitano al confronto «non ideologico» e ad ammainare la bandiera dell’antifascismo – a correre in soccorso del vincitore di oggi. Il vento del Nord portava la libertà, si diceva allora. Non dimentichiamolo.