Parto dai rapporti con l’estero. Meloni ha capito che è essenziale per l’Italia mantenere buoni rapporti non solo con gli Stati Uniti (ovvio e facile perché agli USA interessa soprattutto l’atteggiamento dell’Italia verso Russia e Cina), ma anche con la Commissione Europea. Ovvio anche questo, ma il governo sovran-populista del 2018 partì col piede sbagliato. Meloni è stata più intelligente, lasciano casomai ad altri esponenti della coalizione di governo le critiche ai “burocrati di Bruxelles”. Lei e Fitto hanno stabilito un buon rapporto di collaborazione coi burocrati e, soprattutto, con Von der Leyen che, a sua volta, ha bisogno del sostegno italiano per essere riconfermata il prossimo anno.
Passo alle politiche interne, e, in particolare, a quelle economiche. Per ora, il governo Meloni non ha azzardato mosse drastiche (a parte la sorprendente tassa sugli extra profitti delle banche introdotta qualche giorno fa). Anche le proposte di riforma del PNRR sono contenute. Si chiede di riallocare 16 miliardi, l’8% del totale. Al 92% il PNRR resta quello di Draghi e non si capisce allora perché FdI non l’abbia votato quand’era all’opposizione. Anche le politiche di bilancio non sono state avventate. In questo Giorgetti è stato aiutato dalla fortuna: la decisione di Eurostat di riclassificare i crediti d’imposta del superbonus, il che ha spostato dal 2024 al 2020-22 16 miliardi di minori entrate (con risparmi ulteriori per gli anni seguenti). Inoltre, l’inflazione continua a erodere il debito pubblico: se l’inflazione fosse zero il nostro debito smetterebbe di calare in rapporto al Pil stabilizzandosi a livelli superiori a quelli pre-Covid.
Ciò detto, si è trattato di politiche dichiaratamente conservatrici, caratterizzate da una tendenziale detassazione (sui redditi bassi, ma anche sui percettori di guadagni in conto capitale e con la prospettiva del regalo della flat tax ai redditi più alti), la solita politica di condoni e un taglio alla spesa pubblica con l’abolizione del reddito di cittadinanza e, soprattutto, non aumentando gli stanziamenti in linea con l’inflazione, insomma con tagli lineari. Ne risultano penalizzate proprio quelle spese, in primis istruzione e sanità, che dovrebbero mirare a garantire un’eguaglianza di opportunità e il buon funzionamento dell’ascensore sociale per chi se lo merita.
Al di là delle parole, non mi sembra un governo interessato molto al merito. Da riconoscere però il fatto che il governo ha preso buone decisioni in termine di nomine in campo economico, confermando i vertici della Ragioneria dello Stato e dell’Agenzia delle Entrate e rimpiazzando quello dell’Agenzia delle Dogane.
Alcune difficili prove però si avvicinano: la legge di bilancio per il 2024, la realizzazione dell’autonomia differenziata, i decreti legislativi in materia fiscale, per non parlare del PNRR, per il quale il governo è in ritardo non solo nella spesa, ma anche nelle riforme.
Dove però il governo è più in difficoltà è proprio nell’area che forse è stata più importante nella raccolta del consenso alle elezioni: le politiche di immigrazione. Il governo ha fatto bene a moltiplicate le entrate regolari, ma sta invece fallendo nel bloccare gli sbarchi sulle coste siciliane. Il record di 181.000 sbarchi raggiunto nel 2016 potrebbe essere superato nel 2023. La fortuna del governo è che questo non è un tema che la sinistra può facilmente cavalcare.