Prima domenica di settembre: è il momento opportuno per fare il punto sulla situazione economica. Siamo alla vigilia di importanti decisioni di politica economica, in primis la legge di bilancio del governo Meloni, nella sostanza, la prima legge di bilancio di questo governo visto che quella del 2023 fu preparata in tempi record ereditandone l’imbastitura dal governo Draghi.
Partiamo dal contesto internazionale. L’economia mondiale non sta benissimo, ma gli scricchiolii che si sono sentiti negli ultimi mesi non sembrano portare a quella tempesta perfetta che, ormai da alcuni anni, le cassandre economiche regolarmente prevedono per l’autunno. Le crisi bancarie della scorsa primavera (Credit Suisse la vittima più illustre) sembrano essere state riassorbite. La crisi della società immobiliare Evergrande è rilevante per l’economia cinese, ma le sue ramificazioni all’estero, soprattutto per il sistema finanziario mondiale, sembrano per ora contenute. Quindi, rallentamento nella crescita mondiale sì, ma si dovrebbe evitare la quarta crisi in quindici anni (dopo la crisi finanziaria del 2008, la crisi del debito sovrano europeo del 2011-12 e quella del Covid-19). Ciò detto, alla luce di questo rallentamento e del calo dell’inflazione, le due principali banche centrali mondiali (l’americana Fed e la Bce) non dovrebbero, a mio giudizio, aumentare ulteriormente i tassi di interesse in settembre. Una pausa è necessaria a meno che i dati sull’inflazione di agosto (scrivo questo pezzo prima che siano stati pubblicati) non indichino un inatteso balzo dei prezzi.
In questo contesto l’Italia dovrebbe continuare a crescere, anche se lentamente: difficile raggiungere il tasso di crescita che il governo aveva previsto nel Documento di Economia e Finanza (Def) dello scorso aprile (1,5%). La minore crescita potrebbe dare l’opportunità al governo di deviare dall’obiettivo fissato nel Def per il deficit pubblico nel 2024 (3,7% contro il 4,5% nel 2023): con un Pil più basso, le entrate pubbliche scenderebbero. Il problema è, però, che il deficit inizialmente previsto nel Def era piuttosto alto. Eccedeva di parecchio il tetto del 3% delle regole europee (le regole cambieranno dal prossimo anno, e parecchio, ma il 3% dovrebbe restare). L’obiettivo del 3,7% lascerebbe i nostri conti pubblici in una situazione peggiore di quella pre-Covid, nonostante la crisi Covid sia stata ormai superata in termini di livello di attività economica. L’avanzo primario (cioè il saldo di bilancio al netto della componente volatile degli interessi) fissato dal Def per il 2024 (coerente col deficit totale del 3,7%) era dello 0,3% del Pil quando nel 2019, prima del Covid stavamo all’1,8%. Questo, nonostante, per grazia ricevuta dall’Eurostat, uno 0,8% del Pil di bonus edilizi siano stati spostati dal 2024 al triennio 2020-22). Diciamo che, anche dal punto di vista dei conti pubblici, il Covid ha avuto effetti di lungo periodo. Era del tutto legittimo espandere il deficit per rispondere alla crisi Covid però è diventato un “liberi tutti” grazie ai bonus.
Sarà quindi difficile per il governo trovare nell’aumento del deficit una valvola di sicurezza per rispondere alle pressioni derivanti dalle promesse pre e post-elettorali (che non sto qui a dettagliare ma che ammontano a 20-25 miliardi). Questa è la sfida più grossa che Giorgetti si trova ad affrontare da quando è ministro.