Forza Italia perde terreno e forza, dopo la scomparsa del suo dominus. Quella che doveva essere «la casa dei moderati» ora è una formazione marginale. Prevalgono le spinte più estremiste di FdI e Lega

Finale di partito (in ogni senso). Il berlusconismo ha vissuto tante parabole della sua spinta propulsiva, ma è sempre, invariabilmente, rimasto in campo. Autentica espressione di un lunghissimo spirito dei tempi, sorta di autobiografia della nazione in epoca postmoderna. Sempre presente e variamente declinato attraverso le molteplici sfaccettature del suo prisma: quella politica, quella mediale, quella culturale (e pure sottoculturale). Oggi, invece, le profonde inquietudini che squassano Forza Italia fanno sembrare prossima l’archiviazione definitiva del berlusconismo politico.

 

Come era prevedibile per un partito di tipo personale – quello per antonomasia della storia politica italiana, contrassegnato da una personalità così forte e tracimante quale quella di Silvio Berlusconi – trovare la strada di una rifondazione dopo la scomparsa del suo dominus assoluto si rivela di fatto impraticabile. Tanto che stavolta ha tutta l’aria di essere arrivato davvero al capolinea – o, in ogni caso, al punto di non ritorno.

 

Le correnti interne – che sono sempre esistite, a dispetto dell’immagine esterna del monolito serrato intorno al fondatore – sono divise fra chi vorrebbe rendere ancora più stretto l’abbraccio con Giorgia Meloni e chi, invece, insegue l’idea di un’autonomia più spinta, cosa che dovrebbe implicare anche una maggiore capacità di distinguersi in seno all’esecutivo, mentre il voto sul Mes, con l’astensione dei postberlusconiani, si è risolto in un modo assai deludente rispetto a tutti i passati proclami europeisti.

 

E il nodo è proprio questo: Forza Italia rappresenta il vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro di FdI e della Lega lanciati in un’escalation di estremismo ed euroscetticismo, e non riesce a fare pesare quella che dovrebbe essere la sua vocazione originaria, mentre incombe l’ordalia elettorale delle Europee di giugno – con il relativo accorato appello di Antonio Tajani alla premier affinché non si candidi direttamente facendo l’«asso pigliatutto».

 

A dire il vero, con certe posture estremiste ha sempre avuto una certa dimestichezza anche lo stesso Berlusconi, che è stato uno dei creatori dell’antipolitica degli anni Novanta del secolo scorso, nonché colui che ha introdotto nel panorama nazionale le tecniche della campagna elettorale permanente, assieme a dosi massicce di populismo d’antan. Nondimeno, si trattava di un registro comunicativo populista con caratteristiche differenti da quelle di questi ultimi anni; e Berlusconi era soprattutto colui che voleva riproporre in una nuova versione il pentapartito, facendo di Fi il contenitore e la «casa dei moderati».

 

E, sebbene all’insegna degli eccessi della «guerra dei Trent’anni» contro la magistratura, del repertorio di storytelling che rispolverava a ogni piè sospinto un anticomunismo “archeologico” e di svariate contraddizioni (a partire dalle simpatie per l’«amico» Putin), la sua scelta era stata quella di incarnare la sponda italiana del Ppe e di proporre un’offerta politica basata sul modello di un partito liberalconservatore. Mentre il destracentro odierno si basa su presupposti (e una trazione egemonica) che rendono quella prospettiva centrista appunto residuale. E per la formula già berlusconiana del centrodestra lo spazio politico appare ora gravemente eroso e compromesso.