Il tentativo di rendere la Lega un partito sempre più radicale e nazionale è fallito. Perché resta ancorato al Nord e alla logica dei ceti produttivi locali. Le prossime elezioni, quindi, saranno una resa dei conti a destra

Sovraffollata è la competizione a destra. E specialmente all’estrema destra, dove Matteo Salvini ha deciso da tempo di posizionare il partito che guida, cambiandone massicciamente il volto rispetto alla Lega Nord che fu di Umberto Bossi. Con una “pelle” che, nel profondo e dal punto di vista dei bacini elettorali di riferimento, continua però a rimanere fondamentalmente la stessa. Come dicono i numeri, a cui bisogna sempre guardare con attenzione nelle analisi e nei ragionamenti.

 

Le previsioni odierne dicono che nel voto per Strasburgo e Bruxelles del prossimo giugno Salvini rischia di fare fatica a difendere la percentuale delle ultime elezioni politiche (8,9%), pallidissimo ricordo del trionfale risultato del 34,3% riportato nelle passate Europee. Con l’apice del 40% che venne raccolto nelle Regioni settentrionali, come da tradizione – e l’espressione è congrua perché la Lega, pur con il parziale cambio salviniano di denominazione, costituisce il partito di più lunga data presente attualmente in Parlamento.

 

La Lega per Salvini premier, ossia il progetto di partito nazionalpopulista e di destra-destra che voleva penetrare in tutto il Paese andando molto al di là degli insediamenti storici del Carroccio, ha ballato in buona sostanza soltanto una stagione sotto il profilo dell’allargamento dei consensi. Precisamente quella delle elezioni europee del maggio 2019, il cui “bottino” di voti si è però rapidamente dissolto, come avvenuto anche per altri protagonisti della politica italiana, all’insegna di quello che si può chiamare un paradigma di «leadership (sempre più) intermittente». Il vicepremier Salvini, impegnato a fare il controcanto colpo su colpo alla debordante e pigliatutto presidente del Consiglio, si sta oggi giocando il tutto per tutto.

 

La crisi del salvinismo deriva precisamente anche dal fatto di non essere riuscito a far compiere alla Lega il salto nella condizione di forza politica di carattere autenticamente nazionale. Un’opera rimasta incompiuta essenzialmente perché “contronatura”. A dispetto del rebranding sovranista e reazionario, la Lega resta difatti un partito macroregionale nordista in continuità con le sue radici di organizzazione di rappresentanza politica territoriale (do you remember le antiche parole d’ordine secessioniste?). A conferma del tramonto del disegno “espansionista” al di là del Settentrione, Salvini ha stipulato un patto per la Sicilia con l’ex governatore Raffaele Lombardo, come già aveva fatto nell’altra isola con il Partito sardo d’azione dell’adesso scaricato (per ragioni di forza maggiore) Christian Solinas.

 

E oltre a doversi districare fra i riflessi negativi delle vicende giudiziarie della famiglia Verdini, si ritrova a fronteggiare in Veneto una rivolta contro la potenziale candidatura del generale Roberto Vannacci, su cui ripone molte speranze per puntellare la sua posizione fattasi precaria. Un altro dei simboli della sua svolta di destra radicale, digerita a fatica e mai davvero metabolizzata dai pragmatici (e, dunque, tutt’altro che euroscettici) ceti produttivi del Nord. Con la possibilità ora concreta che, in caso di performance deludente, si apra la resa dei conti intorno al segretario federale anche nel partito “cesarista” per antonomasia.