Belle storie
«Noi, figli delle vittime di violenza, attraversiamo l'inferno assieme alle nostre madri»
Pasquale è orfano di femminicidio, Sofia non lo è per un soffio. I loro padri non si sono mai ravveduti per il male fatto alle rispettive mogli. «Parliamo e raccontiamo le nostre storie per salvare altre donne»
Salvatore Guadagno uccide nel 2010 sua moglie Carmela Cerillo, trentotto anni, madre di due figli. «Ce l’ha portata via per sempre dopo aver visto la partita con mio zio, suo cognato. Strinse le sue mani intorno al collo di nostra madre e la uccise». A parlare è Pasquale che è il figlio più piccolo, oggi ventisettenne. «La sua voce grossa, le nostre urla; mi bloccava la testa per sputarmi dritto in faccia quando ero piccolino. Sono stati anni terribili».
Dopo l’omicidio viene affidato alla famiglia paterna: «Colpevolizzavano la mamma e costringevano me e mia sorella alle visite in carcere. Durante i colloqui, mio padre continuava a ripetere che l’avrebbe rifatto. Sono andato a vivere con mia sorella solo quando avevo 17 anni. Soli al mondo, senza aiuti». Oggi Guadagno sta scontando in carcere 13 anni di reclusione e fra poco sarà un uomo libero. «Uscirà a cinquant’anni avendo tutta la vita davanti. Io e mia sorella invece avremo la vita distrutta per sempre. Non ha mai chiesto perdono, non ha mai condiviso un percorso di redenzione e ha continuato a essere aggressivo anche durante i permessi premio».
Pasquale ha scritto un libro che s’intitola “Ovunque tu sia” per restituire dignità alla vita di sua madre e impedire che altri orfani subiscano ciò che ha subito lui. «Un anno fa volevamo cremare nostra madre e spostarla in un altro cimitero, ma non ci hanno dato il permesso perché è il marito a dover firmare. Non l’ha fatto, ma per lo Stato è ancora lui ad avere diritti sulla donna che ha ucciso. Non lo odio, non voglio dargli questo potere. L’odio non serve per cambiare le cose, non si può tornare indietro».
Anche Sofia, nome di fantasia, ha sentito il peso di uno Stato assente. Ha quarant’anni e quando ne aveva undici è diventata la figlia di una sopravvissuta. Prova ancora vergogna nel ripercorrere la sua storia, ma sta riportando alla luce tutto ciò che ha passato, con i suoi fratelli, in questi giorni. «Avevo undici anni e i miei fratelli ne avevano 13 e nove, quando abbiamo sentito gridare e abbiamo capito subito che era la mamma picchiata da nostro padre. Io lo riempivo di pugni mentre lui la colpiva, ma non smetteva. Non ha mai smesso nemmeno quando lo imploravamo di smettere. L’ha colpita con una mannaia da macellaio».
Ha quasi ucciso sua madre e, malgrado sia stato condannato a undici anni, dopo cinque era già fuori dal carcere. Gli assistenti sociali volevano dividere i figli, che sono riusciti a restare uniti solo grazie alla nonna e agli zii. La mamma era in fin di vita con «mille punti di sutura sulla testa», un dito ritrovato nella pozza di sangue che poi sono riusciti a ricucire. «Abbiamo vissuto anni nel terrore e anche quando mamma è uscita dall’ospedale non abbiamo ricevuto sostegno da nessuno. Cinque o sei anni fa ci hanno comunicato la morte di quell’uomo che non posso chiamare papà. Quando era ancora in vita, ci è arrivata perfino una raccomandata in cui ci chiedeva soldi per mantenerlo in una casa di riposo».
Pasquale suggerisce leggi migliori per tutelare gli orfani: «Sarebbero da rivedere conoscendoci davvero. So che la mia storia, per quanto ci potranno accusare di strumentalizzarla, come fanno con Gino Cecchettin, servirà per fare del bene. Le parole sono eroiche perché possono salvare altre vite. Spero di poter contribuire».