Sopravvissuta all’avvelenamento che ha ucciso il marito, Monica Marchini ora racconta la sua storia

Non ci saranno vincitori né vinti in questo processo, solo dolore». È la frase che ha pronunciato Monica Marchioni, la mamma di Alessandro Leon Asoli condannato a trent’anni di reclusione per aver ucciso nel 2021 il patrigno Loreno Grimandi, 56 anni, e aver tentato di avvelenare anche lei, con pennette condite con il veleno. «Ci auguravamo l’ergastolo, alcuni per giustizia e io per il terrore che potesse uscire dal carcere troppo presto e tentare nuovamente di uccidermi. Mi auguro che lui possa davvero comprendere ciò che ha fatto; pentirsi profondamente e riuscire a rinascere in qualche modo».

 

La vita di Monica dopo quel giorno è cambiata per sempre: «Non starò mai più bene. Dire ormai che mio figlio era un bravo ragazzo è pleonastico, ma la verità è che abbiamo sempre vissuto serenamente insieme, anche dopo l’arrivo di mio marito che si è rivelato un “padre” fantastico. L’atmosfera in famiglia era quella normale di chi vive con un figlio adolescente, ma sempre immersa in un amore profondo. È questo amore che mi porto dentro ogni giorno, cercando di alleviare quel dolore che mi colpisce direttamente al cuore. Avevo notato dei cambiamenti in lui, ma solo nelle settimane precedenti. Non si trattava mai di atteggiamenti violenti, ma solo di un comportamento più spocchioso. Avevo fatto tutto il possibile per stargli vicino, ma le cose sono precipitate. Non so se arriverò a perdonarlo».

 

Un dramma famigliare che ha lasciato dietro di sé domande a cui Monica cerca di rispondere nel libro “Era mio figlio”, scritto con la giornalista e criminologa Cristina Battista (Edizioni Minerva). «Vorrei che il mio libro fosse d’aiuto per chi non trova la forza di sopravvivere a eventi devastanti o il coraggio di chiedere aiuto. Spero che mio figlio possa leggerlo un giorno, potrebbe essergli d’aiuto». La giornalista ha offerto il suo sguardo scientifico per analizzare il profilo di Alessandro e le dinamiche che hanno portato a questo epilogo. «Stiamo vivendo un momento difficilissimo per le relazioni umane, condizionate dal mondo veloce in cui siamo immersi. La famiglia, prima che la scuola, deve educare i figli al rispetto, all’empatia, alle emozioni, positive e negative. È possibile riconoscere i segnali, difficile, ma non impossibile. Ci vuole tempo: di condivisione, di relazione. Alessandro aveva un desiderio irrefrenabile dei soldi “in fretta”; la continua insoddisfazione davanti alle piccole cose; la fascinazione nei confronti di un certo tipo di vita che non poteva permettersi con i suoi strumenti e quelli della sua famiglia e non aveva alcuna predisposizione al lavoro, all’impegno. I suoi genitori, in questo caso, erano di intralcio. Nessuno è immune alle difficoltà e nessuno pensa che una difficoltà si trasformerà in tragedia. Tuttavia, queste storie non possono rimanere nelle aule di un tribunale, vanno raccontate, analizzate dal punto di vista criminologico a sostegno di chi magari vive situazioni analoghe». Monica dice che da una parte sente ancora sentimenti struggenti da madre che ama suo figlio, dall’altra da vittima che ricorda costantemente quella frase: «Come cazzo è che non muori?». Oggi vuole vivere per sviluppare un progetto per dare aiuti concreti. «Altrimenti che senso avrebbe avuto la mia sopravvivenza, qui, sola al mondo».