L’impasse dell'acciaieria di Taranto dipende da scelte politiche sbagliate. La joint venture con ArcelorMittal e l'amministrazione straordinaria si sono rivelate fallimentari. Lo Stato avrebbe dovuto assumersi responsabilità dirette per salvare la siderurgia italiana

Lo sfascio dell’ex Ilva è la cartina di tornasole dell’inadeguatezza, che si trascina da tempo, della classe politica italiana. È una gravissima crisi che si acuisce ogni giorno di più e che indebolisce, senza soluzione di continuità, il ruolo fondamentale della siderurgia in Italia. I governanti succedutisi in questi anni credevano di avere risolto l’affaire ex Ilva con la joint venture con ArcelorMittal (2018). Un colosso indiano dell’acciaio che si muove con la logica del profitto, che investe avendo sempre presenti le migliori condizioni che si prospettano nel mondo. La sua spregiudicatezza è nota. Se tutto non torna a suo vantaggio, l’avventura finisce. Meraviglia che non si sia capito prima.

 

L’estenuante trattativa sul futuro dell’ex Ilva tra i due soci, ArcelorMittal e Invitalia (pubblica), si è interrotta, senza via di uscita. Il ministro Adolfo Urso non poteva che prenderne atto. Le cause nei palazzi di giustizia dirimeranno le responsabilità. Non c’è altro tempo da perdere. Il governo, pertanto, deve gestire una crisi marcita nel tempo. Il definitivo dissesto dell’ex Ilva, che coinvolge l’impianto di Taranto e le sedi di Cornigliano e di Novi Ligure, darebbe un colpo ferale alla siderurgia italiana, con nefasti riflessi su tutta l’economia. Guai a dimenticarsi della funzione decisiva dell’ex Ilva nello sviluppo dell’auto e dell’industria meccanica, specialmente di quella del Nord (il famigerato bianco).

 

La composizione negoziata della crisi, ipotizzata da più parti, non è praticabile. Il giudice Francesco Pipicelli ha rilevato che tale procedura «non pare sussistere, in quanto la situazione finanziaria attuale e l’assenza della disponibilità dei soci o di terzi a rifinanziare l’ex Ilva non consentirebbero alla società di avere la liquidità necessaria per la sopravvivenza della continuità aziendale». L’impossibilità di percorrere tale composizione ha aperto la strada al governo per il ricorso all’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, al fine di evitare il fallimento di Acciaierie d’Italia (ex Ilva). Una procedura impervia e rischiosa che non ha mai assicurato soluzioni positive alle imprese che vi sono state assoggettate. Di male in peggio.

 

Il governo, invece, per il valore nazionale della vicenda, avrebbe dovuto assumersi, tramite Invitalia, la responsabilità di diventare il gestore della crisi dell’ex Ilva. La trasformazione in capitale di un finanziamento in essere di Invitalia di 680 milioni di euro e la sottoscrizione di un aumento di capitale di 320 milioni, necessari per evitare il blocco dell’attività e il pagamento dei terzisti, avrebbero dato a Invitalia il controllo operativo di Acciaierie d’Italia. Il gruppo indiano non avrebbe avuto niente da eccepire, essendosi dichiarato indisponibile ad assumere qualsiasi «impegno finanziario e di investimento, anche come socio di minoranza». Non si sarebbe trattato di un illusorio ritorno allo Stato imprenditore, ma si sarebbero create migliori condizioni – diversamente che con l’incertezza dei vari passaggi giuridici previsti dal commissariamento – per la ricerca da parte del governo di un partner industriale del settore credibile, con le dovute rassicurazioni all’Ue.

 

Se questa strada fosse stata praticata, la gestione della crisi avrebbe investito direttamente il governo, che avrebbe dovuto cercare l’apporto dell’opposizione in Parlamento e dei sindacati. Non si sarebbe trattato di una nuova sorta di concordia nazionale, ma della presa d’atto di un risanamento di un gruppo industriale fondamentale per l’economia italiana. Nessuna forza politica o sindacale si sarebbe potuta chiamare fuori.