Si tratta di un fenomeno da non sottovalutare. Perché espone non soltanto a scrittori censurati o querelati, ma a una sfacciata distorsione

Fra poco meno di dodici mesi il Manifesto degli intellettuali antifascisti compirà cento anni. Come è noto, venne redatto da Benedetto Croce in risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile. Andrebbe riletto prima del centenario, anche alla luce delle non poche dichiarazioni da parte della destra di un secolo dopo sul fatto che la cultura, da quando c’è questo governo, è finalmente pluralista. Croce, dunque, scriveva: «A senso dei signori intellettuali fascisti, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione». Il ministro Sangiuliano, a cui Croce è caro, chioserebbe che oggi non c’è nessun nuovo evangelo e che in Italia, finalmente pluralista in fatto di cultura, la libertà non corre alcun rischio, nonostante quanto hanno affermato al Salone del Libro di Torino non solo Antonio Scurati e Roberto Saviano, ma anche Salman Rushdie ed  Elizabeth Strout, seriamente preoccupati per le restrizioni della libertà di esprimersi e manifestare nei Paesi democratici.

 

Don Winslow, autore di amatissimi noir, ha deciso addirittura di smettere di scrivere per dedicarsi all’attivismo, e in effetti ogni giorno si pronuncia contro Trump. Fra gli ultimi post su X: «Non sottovalutate Donald Trump. Trattatelo come la pericolosissima minaccia per la democrazia quale è. Non pensiate che sia impossibile che venga eletto. Purtroppo è molto possibile». Il problema è che di sottovalutazione in sottovalutazione si finisce per ritrovarsi non solo con scrittori rampognati, o censurati, o querelati, ma con una sfacciata distorsione del concetto stesso di cultura.

 

Basti un piccolo esempio: da diversi anni e ancor più a ridosso delle elezioni, il Salone non accetta presentazioni di libri di politici. Per questo motivo ha ritenuto giusto (e lo è) non ammettere le presentazioni delle opere di Vittorio Sgarbi e Mauro Berruti. Bene.

 

Anche il ministro Matteo Salvini ha scritto un libro per Piemme (la stessa casa editrice che pubblica Vannacci). Non lo ha presentato, ma in quanto scrittore è arrivato al Salone del Libro. Per un semplice firmacopie, sembra abbia detto. In realtà il ministro ha messo insieme un bel numero di mini-comizi. Funzionava così: un suo assistente si avvicinava a questo o a quello stand, specie quelli delle Regioni, e avvertiva che il ministro desiderava «dire qualcosa», e a quanto pare non pochi hanno risposto «prego, si accomodi». Dunque, la cultura per il ministro Salvini è il pretesto per fare campagna elettorale.

 

E quando le destre parlano di fine della famigerata egemonia culturale di sinistra pensano, in soldoni, allo spoils system. Sembra un passo avanti rispetto alla famosa frase della cultura che non dà da mangiare, ma non lo è, se la cultura diviene il pretesto per farsi gli affari e le poltrone proprie. Per questo, la cosa preziosa di oggi è Il canto del profeta di Paul Lynch, uscito per 66thandsecond nella traduzione di Riccardo Duranti, nonché vincitore del Booker Prize. Racconta di come si scivola nel baratro senza rendersene conto: Eilish Stack non vuole accettare che la sparizione del marito e il progressivo annientamento delle libertà siano un terribile segnale. Va avanti, perché nulla di terribile può accadere nel suo Paese. Invece.