Il leader 5S ha portato il partito a lasciare sul campo una quantità enorme di voti. Beppe Grillo lo pugnala col sarcasmo. Eppure non vuole mollare. Anche se non si capisce quale sia l'obiettivo che si pone ora

In questa Italia improvvisamente bipolarista che naviga spedita verso le perigliose acque del premierato meloniano, si aggira sperduto un personaggio in cerca d’autore: Giuseppe Conte. Si capisce che sia disorientato: ha appena preso una botta formidabile alle elezioni europee, una di quelle legnate che avrebbero steso chiunque. Perché in Francia, in Gran Bretagna, in Germania o in Spagna quando un leader di partito perde così clamorosamente ringrazia, saluta e se ne va.

 

Ma siamo in Italia, che in politica è la patria del perdono, e dunque nessuna regola e nessuna consuetudine obbliga l’ex presidente del Consiglio a lasciare la sua poltrona. Anche se alle ultime Politiche, dopo che Conte era stato tre anni al governo e 15 mesi alla guida del Movimento, i Cinque Stelle hanno perso più della metà del 32,7 per cento che sventolavano nel 2018. Anche se ora hanno lasciato sul terreno un terzo di quei voti rimasti, scivolando a quel 9,99 per cento che sembra una cifra scelta con perfidia per un partito in offerta speciale ai saldi di fine stagione. Anche se Beppe Grillo, che quel partito lo ha creato dal nulla, lo ha pugnalato con il sarcasmo: «Ha preso più voti Berlusconi da morto che lui da vivo».

 

Conte non ha fatto finta di niente. Ha provato con supremo sprezzo del ridicolo a dare la colpa anche del suo fallimento a Mario Draghi («Dovremmo chiedere scusa agli elettori per il nostro sostegno a quel governo»), ma poi ha solennemente annunciato la sua disponibilità a farsi da parte, se gli avessero detto che lui poteva «rivelarsi un ostacolo». Era disposto ad andarsene, a lasciare il posto a qualcun altro. Eppure, ha notato soddisfatto il giorno dopo, «nessuno ha posto il problema della mia leadership». Perciò lui resta. Ha perso, anzi ha stra-perso, ma non molla. Se ne andrebbe, confida adesso, solo «nel momento in cui non fossi più utile al progetto». Ma siccome il progetto del Movimento adesso è il suo, come il nuovo statuto, come il programma e come l’organigramma, il problema non si pone, perché nessuno meglio di lui è più utile al suo progetto.

 

Restare, dunque, ma per fare cosa? Per dire addio al populismo del «tutto gratis»? Non se ne parla proprio. Dopo averci lasciato in eredità, con il superbonus, un buco nero che finora ha inghiottito 170 miliardi, mister Gratuitamente prometteva altri benefit a spese di qualcun altro: la settimana lavorativa di 32 ore e un nuovo reddito di cittadinanza, però europeo.

 

Restare, allora, per ricostruire il Movimento con una classe dirigente che ogni volta non venga messa da parte dopo il secondo mandato? Neanche questo si può fare, come gli ha spiegato l’irremovibile Grillo, che quando lo ha ricevuto all’Hotel Forum gli ha parlato di robotica e di intelligenza artificiale, forse per dare un senso a quel bonifico di 300 mila euro che l’avvocato del popolo gli accredita ogni anno per la sua preziosissima «consulenza».

 

Restare, forse, per costruire un’alleanza a sinistra, accettando che a guidarla sia il Pd? Ma per carità: lui non si rassegna a questa «polarizzazione voluta da Meloni d’accordo con Schlein», e con il Nazareno accetta solo «un confronto tra pari», anche se il Partito democratico ha due volte e mezzo i voti del Movimento. E solo se Elly accetterà di rinunciare alla sua linea «bellicista», smettendo di aiutare quel guerrafondaio di Volodymyr Zelensky.

 

È dunque sempre più chiaro che Giuseppe Conte vuole restare solo per restare. Perdendo senza arrendersi. Fallendo senza mollare. Galleggiando senza affondare.