Consigli di ri-lettura per Donald Trump, il suo vice J.D. Vance e Giorgia Meloni. Che desiderano un mondo dove si calpestino i diritti e, per giustificarlo, citano libri. A sproposito

C’è un passaggio di J.R.R. Tolkien che, se letto, dovrebbe mettere fine agli equivoci che eleggono lo scrittore a simbolo delle destre. Viene dalla lettera 45 del 1941 e si trova nella raccolta “La realtà in trasparenza”. Il professor Tolkien, dunque, scrive al figlio: «Comunque in questa guerra io ho un bruciante risentimento privato, che mi renderebbe a 49 anni un soldato migliore di quanto non fossi a 22, contro quel dannato piccolo ignorante di Adolf Hitler […]. Sta rovinando, pervertendo, distruggendo e rendendo per sempre maledetto quel nobile spirito nordico, supremo contributo all’Europa, che io ho sempre amato e cercato di presentare in una giusta luce».

 

 

Le parole di Tolkien andrebbero sottoposte non solo alla nostra presidente del Consiglio, ma anche al vice di Donald Trump, J.D. Vance, che non da oggi dichiara di dovere gran parte della sua «visione del mondo conservatrice» proprio al “Signore degli anelli”. Tanto da aver chiamato Narya (l’anello indossato da Gandalf) la società fondata nel 2019 e Anduril (la spada di Aragorn) una startup. Ora, ognuno può essere appassionato di quel che vuole: ma bisognerebbe pur dire a Vance (e a Meloni) che la compagnia dell’anello immaginata da Tolkien non è affatto conservatrice. Anzi, è un tantino multietnica, visto che è formata da due uomini, quattro hobbit, uno stregone, un elfo e un nano: concetto che mal si associa con «la più grande deportazione della storia» promessa da Trump contro gli immigrati. Il problema è che Vance e Meloni vedono in Tolkien soprattutto il rimpianto: non quello per un mondo dove non si usava l’iprite in guerra, ma per un’epoca dove femministe, ambientalisti, migranti non avevano voce.

 

 

La deformazione delle storie è assai cara anche a Trump in persona, che in questi giorni è tornato a citare un altro autore, Thomas Harris, e il protagonista del suo romanzo più famoso, “Il silenzio degli innocenti”. Cosa c’entri lo psichiatra cannibale con i migranti che premerebbero alle porte è piuttosto oscuro, ma proprio promettendo deportazioni di massa Trump è tornato a esprimere ammirazione per Hannibal Lecter (che, se esistesse, starebbe già lietamente stappando una bottiglia di Amarone per accompagnare una cotoletta a base di candidato presidente).

 

 

A ogni modo, se Trump leggesse bene, saprebbe che uno dei passi più belli del romanzo di Harris riguarda il desiderio. «Il desiderio nasce da quello che osserviamo ogni giorno», dice Lecter. Vero. Trump, Vance, i sovranisti tutti desiderano quel che vogliono vedere. Ovvero, un mondo a misura di vecchi maschi bianchi (o di giovani donne bianche che sognano la stessa cosa) dove è possibile calpestare i diritti di ognuno, come nella serie “Westworld”, dove è lecito sparare e stuprare, purché si paghi. O come nella testa di quel senatore leghista che pensa che si possa imporre la lingua italiana a suon di multe contro chi dice «avvocata» (e anche qui, ci sarebbe da leggere almeno il Salve Regina, ma pazienza).

 

Per questo, la cosa preziosa di oggi è “Ursula K. Le Guin e le sovversioni del genere” di Giuliana Misserville, uscito per Asterisco. È uno studio su una delle più grandi autrici di fantascienza dove si dimostra che già nel romanzo “La mano sinistra del buio” Le Guin raccontava un mondo che oggi si definirebbe queer. E dove, soprattutto, smontava un concetto caro ai sovranisti di ogni luogo: la necessità di avere un nemico. E, potendo, di deportarlo.