Resistenti
«Viviamo l'epoca del terrore, su cui si fondano il potere e l'economia di guerra»
Viene meno la narrazione di un'Europa pacifica e ci si avvia verso una sorta di conflitto permanente. Perché il tardo-capitalismo si regge sull'emergenzialità e sulla tensione
«Siamo in una guerra globale permanente», mi dice uno degli attivisti della rete “Tende contro le guerre” (Tecleg). «Usiamo la parola guerra, ma di fatto stiamo parlando di conflitti asimmetrici». La scintilla di Tecleg nasce lo scorso marzo dopo un viaggio a Rafah con lo slogan «perché le guerre non diventino il nostro pane quotidiano». Non dà vita a niente di nuovo: resuscita e riallinea vecchie alleanze e complicità intorno alla volontà di esplicitare le maglie dell’economia bellica e di arrestarne le macchine. «Parliamo di guerre al plurale per tenere l’attenzione su tutti i contesti bellici e la loro matrice comune».
Con questo scopo hanno usato la metafora delle tenda come «luogo di insicurezza, precarietà e pericolo», ma anche «di rifugio, di incontro, orizzontale e nomade per definizione». Il 2 giugno la rete ha promosso, in piazza San Cosimato a Roma, un presidio sulla «digitalizzazione della guerra e militarizzazione del digitale»; qualche settimana dopo, ha organizzato «hackerare i dispositivi coloniali»: incontri su come il colonialismo da insediamento si appropria dei saperi e delle tecniche per trasformarli in dispositivi di guerra, di controllo e di conquista.
Un mese dopo, siamo al bar con due attivisti di Tecleg che cantileniamo di come non ci siano mai soldi per niente, ma sempre per le guerre: «Non c’è bisogno che ti cadano le bombe in testa per capire cosa sia l’economia di guerra e il modo in cui la società, tutta, la subisce», continua uno. «Come siamo portati ad assumere un vocabolario bellico», e mentre lo dice penso alla gestione securitaria della migrazione, al vocabolario delle «invasioni». Riflettiamo su come «siamo costretti ad assumere una postura di guerra nella società. Facciamo nostra una narrazione d’emergenzialità che ci impedisce di tenere il filo rosso che collega strutturalmente tutto».
Infatti, la guerra è sempre più concretamente qualcosa che riguarda la pace fittizia dell’Occidente, anzi grazie a cui, attraverso il complesso militare industriale, prospera. Chiedo a entrambi di definire guerra e terrore: «La guerra non è solo un luogo fisico che, concentrato intorno a vari centri di potere, si dipana in catene produttive. Il centro della guerra è dove il bombardamento avviene, mentre noi siamo alla periferia dei bombardamenti, ma al centro della produzione e del potere bellico», dice l’altro e quasi si parlano sopra.
Mi interessa sapere come definiscono il terrore e su questo indugiano, uno aspetta il mio sguardo per parlare: «Forse il terrore che proviamo noi è la fine della narrazione di un’Europa pacifica, verso una possibile guerra permanente, non sappiamo il tipo né il modo, ma ci sarà». C’è una pausa lunga che finalmente mi permette di scrivere senza che mi si indolenziscano le dita: «Credo che questo sia un po’ il momento del tardo-capitalismo in cui il terrore è la cifra della tensione che tiene in piedi tutto», riflette un attivista della rete. «Ci sta un passaggio di paradigma, noi ora viviamo l’epoca del terrore, “terrocene”», conclude sorridendo.
«Dal bombardamento della Jugoslavia in poi, la pace s’impone così: incutere un terrore che controlla. Il terrore è il linguaggio. C’è una strategia di applicazione del terrore incrociato, dove, ovunque nel mondo, tutti hanno paura di tutto e sono immobilizzati e nessuno fa niente». «Fa abbastanza», correggo io; anche se sono lì per intervistarli mi sento obbligata a tirare l’ago verso la speranza, anche solo per equilibrio dialogico.