l decreto Piantedosi non impedirà le manifestazioni. E gli arresti daranno più spazio ai violenti

Ma Barker, interpretata da una magnifica Shelley Winters, è a capo di una banda sanguinaria composta dai quattro figli e specializzata nel rapinare le banche durante la crisi degli anni Trenta: ne raccontò la storia Roger Corman in “Il clan dei Barker” e ogni tanto dovremmo rivedere il film per ricordarci che ci sono madri e madri, e dunque non sempre è opportuno raccontarsi come madre della nazione, specie quando si è a capo di un governo che vara un pacchetto sicurezza come quello di Matteo Piantedosi. Ma Barker non sarebbe particolarmente toccata dalla norma anti-Gandhi contenuta nel ddl, perché avrebbe continuato a imbracciare il mitra senza farsi problemi. A tutti gli altri (o quasi) fa impressione non solo l’idea che ci siano diversi anni di carcere ad attendere chi protesta in modo non violento ma che nel provvedimento si usi la parola «corpo»: si va in galera se si «impedisce la libera circolazione su strada ordinaria o ferrata ostruendo la stessa con il proprio corpo». Ora, probabilmente lo spettro di Michel Foucault starà bisbigliando a ogni orecchio disponibile «l’avevo detto, io». E con ragione. Perché se questa norma fosse stata in vigore nei tempi passati, non sarebbe comunque stata un deterrente per le grandi ribellioni pacifiche della storia. Lo stesso Gandhi non avrebbe rinunciato alla marcia del sale del 1930, trecento chilometri a piedi per protestare contro la tassa dell’Impero britannico. Occupazione di suolo pubblico, avrebbe detto Piantedosi. Prima di lui, nel 1908, Emmeline Pankhurst, la fondatrice della Women’s Social and Political Union, venne condannata a sei settimane di carcere per aver fatto irruzione in Parlamento (all’epoca gli occhiali con telecamera di Maria Rosaria Boccia non erano stati inventati: e probabilmente Piantedosi avrebbe giudicato la pena troppo leggera). Non avrebbe impedito neanche la marcia di Birmingham del 1963, quando, su ispirazione di Martin Luther King, si moltiplicarono i sit-in dei neri nelle biblioteche, nei ristoranti e nelle chiese riservate ai bianchi. Il 2 maggio 1963 furono gli studenti a marciare, inclusi centinaia di bambini che uscirono dalla scuola per incontrare il sindaco. Marciarono tenendosi in contatto con i walkie- talkie, cantando “We Shall Overcome”, entrando nelle chiese e nei centri commerciali. Vennero arrestati in seicento: ridevano. A Piantedosi non sarebbe piaciuto (il fatto che ridessero, non l’arresto). Né avrebbe apprezzato la protesta contro la poll tax di Margaret Thatcher, quando, il 31 marzo 1990, 50 mila persone invasero il centro di Glasgow e bloccarono case e interi quartieri per impedire agli esattori di accedere alle abitazioni. «There are alternatives», ci sono sempre alternative, disse rispondendo a Thatcher il grande fondatore dei peace studies, il norvegese Johan Galtung: e sono nonviolente. Quelle violente sono raccontate nella cosa preziosa di oggi, che è “Cinquecento anni di rabbia” di Francesco Filippi, che per Bollati Boringhieri analizza il rapporto fra rabbia sociale e mezzi di comunicazione: dalla guerra contadina nel Sacro Romano Impero a Capitol Hill, c’è stato sempre un momento in cui i detentori del discorso pubblico sono stati travolti dalla rabbia. Criminalizzare le proteste pacifiche è il modo più insensato per provare a spegnerle: perché i pacifisti mettono in campo il proprio corpo, non quello degli altri (e, sì, Foucault, lo avevi detto, ma non ti ascoltano, come vedi).