Opinioni
21 novembre, 2025L’istituto stesso è in pericolo in una competizione che può rivelarsi l’eco di uno scontro tra nomenclature
Si è aperta ufficialmente la partita. Con il deposito delle richieste in Cassazione, prendono forma i termini del referendum sulla riforma costituzionale della giustizia. Da un lato la premier Giorgia Meloni, dall’altro la segretaria del principale partito di opposizione, Elly Schlein. Uno scontro frontale, denso di rischi, ma soprattutto carico di potenziale risonanza per la democrazia italiana. Ma che cosa rischiano, più che l’una o l’altra, la forma stessa del conflitto politico e la credibilità del sistema?
Meloni ha investito la riforma come uno dei temi centrali del proprio mandato: una promessa di «giustizia rapida e reale», in un Paese dove da anni il sistema appare logoro, sofferente, incapace di dare risposte. Schlein e l’opposizione denunciano il pericolo che dietro la rassicurazione della “giustizia veloce” si nasconda un passo verso la subordinazione della magistratura al potere politico. Il referendum non è dunque un mero passaggio tecnico ma un banco di prova: per la credibilità di Meloni, per la coesione delle forze progressiste guidate da Schlein, e per la tenuta di un equilibrio istituzionale che lunghe stagioni ci hanno insegnato a considerare fragile.
Il primo rischio: che la posta in gioco venga ridotta a uno scontro identitario, piuttosto che a un ragionamento di merito. Se il referendum diventa il segno di un confronto “noi contro loro”, con le stesse categorie che divise le campagne elettorali passate — la destra a difesa dell’ordine, la sinistra a difesa delle garanzie — allora la sua funzione come strumento di partecipazione perde senso. E la politica sceglie la scorciatoia del combattimento anziché la via dell’argomentazione. Meloni rischia di trasformare una riforma complessa in un prodotto di comunicazione elettorale: “Io riformo perché sono forte”. Schlein rischia di confinare la sinistra nella difesa del sistema per quanto malato, “noi ci opponiamo perché siamo garanti dell’indipendenza”. In entrambi i casi il referendum diventa l’eco di una guerra fra nomenclature, e non un’occasione di rinnovamento. Il secondo rischio: che ogni risultato — vittoria o sconfitta — diventi un’etichetta per il vincitore e una condanna per il perdente. Se Meloni vince, si andrà verso un rafforzamento della sua leadership. Se perde, si aprirà la ferita della delegittimazione del governo e forse la crisi prematura. Per Schlein: se vince, sarà consacrata come nuova guida della sinistra italiana; se perde, la sinistra sarà ulteriormente frammentata, con il rischio di scivolare nel piccolo mondo della testimonianza. Il terzo rischio riguarda l’istituto stesso del referendum: concepito come strumento di partecipazione, può diventare arma di polarizzazione. Quando si riforma la giustizia — un tema che tocca magistrati, cittadini, norme, cultura — non si può ignorare che la materia è tecnica, complessa, eppure decisiva per la qualità della democrazia. Se l’esito è “sì” o “no” ma la discussione resta debole, frettolosa, dominata dallo slogan, l’istituto perde credibilità. Il cittadino si trova davanti a un quesito non semplice: e la politica ha il dovere di chiarire, non di semplificare fino alla banalità. Meloni e Schlein, qui, condividono la responsabilità di far comprendere il “perché” e non solo il “chi”. Il quarto rischio – forse il più profondo – riguarda la democrazia stessa: quando la giustizia diventa oggetto di scontro politico, la magistratura finisce nel mirino del consenso. E allora la fiducia dei cittadini nel sistema – nei processi, nelle sentenze, nella separazione dei poteri – rischia di scivolare verso il sospetto.
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