Nel grande circo della politica italiana, lo scontro tra Antonio Tajani e la Lega ha il sapore amaro di una commedia degli equivoci. Da una parte c’è lui, l’uomo con la prudenza del diplomatico e il pedigree europeista. Dall’altra, una ciurma di sovranisti in cerca di visibilità che, tra un’invocazione a Trump e una strizzata d’occhio a Mosca, cerca disperatamente di non annegare nel mare mosso del consenso perduto.
L’ultimo numero della combriccola padana ha avuto come protagonista Claudio Durigon, vicesegretario della Lega ed esperto di pensioni, che – rivelando un’insospettabile passione per gli affari internazionali – ha dichiarato che Tajani «è in una posizione un po’ difficile» per il suo sostegno a Ursula von der Leyen e al “piano di riarmo” europeo. Ha perfino suggerito che il leader di Forza Italia dovrebbe «farsi aiutare» da Salvini, noto per i suoi «buoni rapporti con Trump». Ma Tajani, che non è noto per la vena polemica, stavolta ha abbandonato i guanti bianchi: ha parlato di «un partito quaquaraquà» che «parla e dice senza studiare e riflettere». Una frecciata velenosa, senza fare nomi, ma con un bersaglio grande come un cartellone elettorale della Lega. E non si è fermato lì: ha avvertito Meloni che se gli attacchi continueranno, dopo il congresso leghista, chiederà una verifica di governo. Tradotto: se continuate a sparare sulla Farnesina, si va a gambe all’aria.
Ecco, questa è la fotografia plastica del governo Meloni: un condominio litigioso in cui ogni inquilino sogna un palazzo tutto suo. Meloni gioca al risiko internazionale tra un summit europeo e un selfie con Trump. Salvini alterna il tifo per Orbán a quello per Marine Le Pen. E Tajani cerca di spiegare all’Europa che no, l’Italia non è (ancora) un esperimento da laboratorio populista. Il risultato è una politica estera italiana schizofrenicamente oscillante tra dichiarazioni di fedeltà europea e pulsioni sovraniste, tra atlantismo formale e ambiguità sostanziale
Lo sforzo di Giorgia Meloni di tenere insieme tutto questo restando dentro i confini della lealtà all’Europa è certamente apprezzabile. Ma quanto può durare questa pantomima? Tajani, che ha vissuto i fasti dell’europeismo classico, si trova oggi a mediare tra pulsioni opposte: l’atlantismo di Meloni, l’ambiguità leghista, la tentazione sovranista che serpeggia sottotraccia. Il punto è che il ministro degli Esteri non può fare il garante europeo mentre i suoi alleati di governo lo smentiscono un giorno sì e l’altro pure. Non può restare l’unico a difendere la linea europeista mentre gli altri mettono mine sotto il tavolo. Perché o si fa politica estera con una voce sola, o si diventa lo zimbello delle cancellerie internazionali.
Tajani è troppo esperto per non capire che questo gioco al massacro lo logora. E ora lo dice chiaramente: basta attacchi, o si apre la crisi. E allora la domanda è: Meloni da che parte sta? Con l’Europa che le garantisce credibilità, o con i “quaquaraquà” che le rosicchiano il consenso da destra? La verità è che questa maggioranza è un fragile compromesso tra pulsioni incompatibili. E il vicepremier forzista, per quanto provi a mantenere la barra dritta, non potrà farlo all’infinito. Prima o poi, il nodo verrà al pettine. E allora l’Italia dovrà decidere: vuole stare nel cuore dell’Europa, o fare il verso a chi dell’Europa vuole solo i fondi?